Elegante, con i capelli corti, gli occhi segnati da una leggera linea e i colori bianco e nero, optical e dinamici, scelti per incorniciare un corpo che sprigionava una energia fuori dal comune, Mirella Bentivoglio (nata a Klangenfurt nel 1922 da genitori italiani, morta a Roma qualche giorno prima del suo 95/mo compleanno) è stata una figura che ha attraversato il Novecento folgorandone le diverse stagioni. Lo ha fatto con le sue parole in libertà come pioniera della verbovisualità in Italia e poi con le sculture (i libri-oggetto e l’uovo universale che tanto ha utilizzato come alfabeto primario) e, naturalmente, con le pagine critiche – anche su il manifesto, con il quale ha collaborato a lungo offrendo preziose recensioni – e quelle di studiosa pura, tra cui i numerosi saggi volti alla riscoperta delle Futuriste e della produzione creativa femminile tout court. Come organizzatrice, ha avuto la medesima funzione attrattiva del magnete, calamitando intorno a rassegne collettive molte artiste: nel 1978 curò l’importante e originalissima Materializzazione del linguaggio per la Biennale di Venezia.

Non è difficile trovare nei cataloghi delle sue  mostre-personali «propedeutici» testi scritti da lei stessa. Una pratica affinata negli anni non certo per narcisismo, ma per una dimestichezza con le simbologie universali, spesso femminili, in contatto con i cruciali passaggi esistenziali e di rigenerazione (dalla vita alla morte e ritorno), che attivava con il dispiegarsi della sua arte.

bentivoglio1
LA SUA SCOMPARSA lascia un vuoto culturale profondo in Italia e all’estero: artista dall’intelligenza prismatica, personalità «a cavallo fra i mondi», in grado di spaziare in campi diversi, dall’antropologia fino alla calligrafia orientale, è stata una delle poche a definire con erudizione i confini reali del libro-oggetto, conferendogli un’autonomia irreversibile di linguaggio. I suoi, in particolare, erano Silenziari, volumi in pietra che si divertivano a fare tabula rasa di tutto.
Presto, il segno alfabetico si sarebbe trasformato in immagine. Prima, però, era necessario fare un po’ di pulizia semantica: «Una volta che ho cominciato a usare liberamente la parola, è stato per me spontaneo dialogare col supporto, sono nati così i libri-pietra…». Che poi non disdegnavano le tante lapidi romane in giro per la capitale.

CRESCIUTA IN UNA CASA ad alta densità di biblioteche e volumi, con padre scienziato e grande viaggiatore (verso il Brasile soprattutto, dove studiava i veleni dei serpenti ma, a quanto pare, dove si adoperava anche per diffondere il verbo futurista), Mirella Bentivoglio ha lavorato intorno a un abecedario in continua metamorfosi e smottamento, partendo dal segno dell’alfa che tutto origina, rivisitato come fosse un toro stilizzato (Corrida), per passare poi all’amata lettera «O», al cui vuoto e perfezione geometrica ha affidato anche future intuizioni. Scaturisce da lì, infatti, il seme che fa germinare «l’uovo», icona e fossile insieme, codice archetipico della vita.

Con Operazione Orfeo ne seppellì uno in una grotta del monte Cucco come atto magico contro il terremoto, e con L’Ovo di Gubbio, forza primigenia e ribelle, scolpì un monumento potente – scheletro in legno e rivestimento in sassi – che ha resistito ai vari sismi ma non all’impatto con un camion.
Bentivoglio è stata inoltre una testimone e una «coreografa» di performance memorabili. Tra queste, sempre a Gubbio, si ricorda l’azione dell’albero capovolto: vissuto come una capanna dalla comunità, accoglieva sui suoi rami i messaggi sentimentali dei passanti.