2 febbraio 1973

Cara Rossana,
ti accludo il progetto C, anch’esso irrealizzabile, che ha tuttavia un valore testamentario. Perché, sommato agli altri due progetti anch’essi improvvisati da me senza crederci affatto, dimostra quello che ho sempre pensato: che un giornale essendo come la rosa di Gertrude Stein, cioè un giornale un giornale un giornale, può essere fatto solo seguendo alcune regole consacrate che hanno la stessa rigidità delle leggi della fisica classica rispetto al mondo sensibile (malgrado la relatività e i quanti): stravolgerle non si può, e neppure si può applicarle ove manchino (come da noi mancano) alcune condizioni di base (tecniche e politiche e perfino psicologiche).

Per me, che sono un mestierante, questo è apparso chiaro un mese dopo la nostra uscita. Allora la cosa non aveva importanza. Contava il fatto politico di essere ogni giorno nelle edicole. Questo è vero anche adesso, naturalmente a più basso livello (due terzi o la metà delle copie). E infatti la cosa migliore sarebbe accontentarsi di questo vantaggio eliminando il costo eccessivo e non necessario: un impegno delle nostre forze sproporzionato agli esiti.

La prima legge di un giornale è che deve avere un direttore. E’ vero per i giornali borghesi, anche quelli che sembrano sempre uguali a se stessi. Il Corriere della Sera di Spadolini era diverso da quello di Ottone. Se cambierà Ronchey, cambierà La Stampa. Il Giorno nacque con Baldacci e divenne un’altra cosa con Pietra. Non è questione di linea politica, ma prima di tutto di tono. Naturalmente, ciò porta con sé la valorizzazione di alcuni collaboratori (Il Giorno è anche Bocca). Ciò vale anche per i giornali proletari. l’Unità è stata prima Ingrao, poi Alicata, e la differenza non stava nella linea politica: anche i giornali di partito che esprimono una posizione o ispirazione generale che sta dietro di loro e che automaticamente riflettono (giornali portavoce), lo fanno con differenze che dipendono (perfino involontariamente) dalla personalità del direttore, la quale si esprime attraverso mille e inafferrabili sfumature convergenti in un’unica direzione (tematiche, impaginazione, quadri, linguaggio, titoli).

Ci può essere una eccezione, quella di un giornale politico di gruppo, tutto finalizzato all’affermazione o alla formazione di un partito. La stampa operaia è piena di questi esempi di giornali che chiamerei leninisti: al di là dei contenuti, suppongo si possano genericamente assimilare in questo senso l’Ordine Nuovo, il Soviet, l’Iskra, ecc. Ma o non sono dei quotidiani o lo sono solo quanto a periodicità: hanno carattere di emergenza, sono strumenti di agitazione anche quando sono densi di idee. Oggi non avrebbero alcun rapporto con la lotta politica attuale, almeno come noi la concepiamo, e riflettono solo una concezione emmellista (in questo senso lo è anche Lotta continua, e lo è il nostro movimento nel modo come concepisce il giornale). Ad ogni modo la legge numero uno vale anche per questo tipo di fogli: ciascuno dei quali rispecchia l’anima del suo fondatore, e l’Ordine Nuovo sopravvive come giornale (non come impresa politica, è ovvio) per «sotto la mole».

La seconda legge di un giornale è che deve avere una redazione. Non è una banalità, ove per redazione si intenda ciò che la parola dice: gente che redige, compila, realizza, non crea (se non in un senso particolare). Il concetto di redazione non ha senso ove non si accetti un presupposto (che è poi la terza legge, come dirò appresso): cioè che un giornale non inventa nulla, si fonda tutto su eventi, accadimenti, detti altrimenti notizie, ch’esso trasmette a un pubblico dietro pagamento di una somma convenuta (nella fattispecie, lire 90). La redazione redige appunto queste cose, ove per redigere si intende: prima venire a conoscenza, poi va- lutare, quindi trasmettere criticamente. Perciò la redazione comporta una relativa specializzazione, una distribuzione di incarichi corrispondente ai canali di informazione, un coordinamento o orchestrazione: questa è una base rigida dalla quale non si può prescindere. Di qui, nonostante la burocratizzazione che comporta, la divisione in servizi.

Il resto – le penne, gli inviati, perfino i corrispondenti che pure sono parte integrante della redazione che redige, e che peraltro noi non abbiamo – è importantissimo ma complementare, e non può in nessun modo correggere quel risultato medio che è dato dalla redazione complessiva: si può fare un giornale solo con una modesta redazione e direzione, naturalmente modesto; non si può fare un giornale solo o prevalentemente con un corpo complementare (a meno che non vi si dedichi, fino a trasformarsi fino in fondo in redazione vera e propria).

La terza legge è che un giornale si basa appunto sugli accadimenti. Il che vuol dire anche e prima di tutto, purtroppo, sulle agenzie di stampa, le quali altro non sono che una redazione universale di base. Questo vale anche per i giornali potentissimi i quali abbiano una rete poderosa di corrispondenti (redattori di base distaccati) interna e internazionale, e un potente complemento di inviati ecc., nonché di commentatori e scrittori. Per la politica internazionale, questo è di evidenza solare, ma è altrettanto vero per tutto il resto. In sé, questo richiamo al significato delle agenzie non ha valore: in teoria, tutti gli avvenimenti si potrebbero conoscere per altre strade (l’informazione diretta presso le fonti specialmente politiche, l’uso dei telefoni, la riflessione su un avvenimento che diventa notizia essa stessa, altri canali autonomi come la televisione, che pure per il 90% manipola agenzie). Il richiamo ha valore solo perché le agenzie si basano sempre su fatti, magari insignificanti e da trascurare, ma sempre tali: e così dovrebb’essere un giornale, cioè senza una riga che non sia una informazione. Al limite, non dovrebbe esserci differenza tra commento e notizia: il commento è tale se in pari tempo riferisce, informa e chiarisce, e la notizia è tale se per il posto dove è messa, lo spazio che occupa, il modo come è scritta, comporta, riflette, suggerisce e trasmette un giudizio.

La quarta legge è che un giornale, per essere letto, non deve essere noioso, e per non essere noioso deve essere più polemico, critico e propagandistico, che non costruttivo, propositivo e formativo: nella proporzione di tre quarti e un quarto, o almeno di due terzi e un terzo. A leggere attentamente tutti i giornali, anche i più paludati – salvo forse l’Osservatore Romano – tutti trasmettono le loro idee positive in termini negativi, cioè critico-polemici: essi sono cioè tutti demagogici e non pedagogici, non educano ma corrompono, e sulla base di questo vincolo che stabiliscono con i lettori, come un padre che dà denaro al figlio per i suoi vizi, gli impongono poi per l’essenziale il proprio punto di vista.

[do action=”quote” autore=”Luigi Pintor”]Questo giornale mi sevizia ogni giorno: come mestierante lo odio, e lo odio anche come libero pensatore.[/do]

Ma questa quarta legge è strettamente intrecciata a una quinta e a una sesta che, poiché mi sono stufato, riassumerò succintamente: il giornale deve sapere che ogni suo numero dura sul mercato poche ore, scivola come acqua fresca, non lascia tracce, e quindi deve proporsi al massimo di esercitare una «suggestione» volgare (solo la somma di queste suggestioni produce, nel tempo, un orientamento politico, ha cioè un valore formativo e una capacità di sedimentazione); il giornale deve scontare un’alta percentuale di errore, perché la fantasia vale per esso molto più della precisione; l’efficacia molto più della completezza; o meglio, perché la fantasia e freschezza e l’efficacia sono armoniche al suo ritmo produttivo, mentre la precisione e la completezza sono da misurare nel medio periodo, cioè come risultato d’insieme (un risultato che non è dato dalla somma aritmetica dei singoli numeri).

Ora accade che nel nostro giornale queste sei leggi (che ne comportano altre minori) sono negate in linea di principio; e anche se non lo fossero, sono inapplicabili perché mancano le condizioni preliminari (anche perché una mela cada dall’albero secondo la legge dei gravi, bisogna che ci sia un albero e per di più un albero di mele).

In primo luogo, il nostro giornale non può avere un direttore, perché non può avere una sua personalità. Immaginiamo diversi possibili direttori, diciamo io, o te o Lucio, che applicassero la prima legge: avremo tre giornali diversi. Io lo farei fatuo, Lucio lo farebbe ansioso, tu lo faresti riflessivo; o anche ammesso che questi aggettivi non siano esatti, è chiaro che avrebbero una impronta (un tono) diversi: ciò che – non essendo noi un giornale borghese e «disinteressato», né un giornale di partito con dietro una linea e un clima consolidati, né un giornale con lettori docili né con militanti omogenei e duttili ad un tempo – sarebbe arbitrario e catastrofico. Di qui la necessità di una direzione collettiva che viola la prima legge per un verso, e che per altro è impossibile (per la contraddizione in termini che nol consente).

In secondo luogo il nostro giornale viola la seconda legge perché non ha una redazione: non ce l’ha per la debolezza della redazione di base ove sia lasciata a se stessa, e non ce l’ha per l’impossibilità di trasformare in redazione che redige quel «corpo complementare» che siamo noi.

In terzo luogo, essendo noi un ibrido, cioè una forza politica in formazione almeno nelle intenzioni, che ha tuttavia o vorrebbe avere una udienza esterna molto più generale, anche il giornale è inevitabilmente un ibrido: viola la terza legge, quella degli accadimenti, sia per tecnica debolezza sia perché abbiamo una esigenza partitica che poi ha per sua natura un nucleo emmellista (noi mobilitiamo, noi agitiamo, non instilliamo a martellate idee, noi affermiamo in ogni riga una visione generale del mondo, noi non possiamo permetterci nessuna parzialità o approssimazione); eppure cerca di applicare la terza legge, sempre quella degli accadimenti, ma per debolezza tecnica e perché non può permetterselo politicamente, lo fa in modo stitico, entro ristrettissimi confini, senza convinzione né libertà (noi ci occupiamo sempre delle stesse cose, noi non raccontiamo, noi non descriviamo, noi parliamo sempre alle stesse persone).

Infine, non parliamo delle altre leggi: esse fanno a pugni col fatto che noi siamo degli ideologhi, degli integralisti, degli stalinisti, come del resto tutta l’umanità.

Allora, visto che il nostro giornale è fatalmente brutto, non sarebbe meglio rassegnarsi? Rassegnarsi vuol dire accettare non solo che sia brutto ma che sia, anche, un giornale: di modo che noi possiamo bensì scriverci come «uomini (o donne) politici», ma occupandoci per il resto d’altro, e lasciandolo al suo volgare destino. Secondo me non cambierebbe nulla, e noi saremmo molto più felici.

Io, poi, non ti dico. Questo giornale mi sevizia ogni giorno: come mestierante lo odio, e lo odio anche come libero pensatore. Il che, sospetto celi una più generale insofferenza per la politica militante, o forse per la politica e basta, o per alcunché di militante compresa la pubblicistica; e sia spia di un incipiente decadentismo (ma forse torniamo a un’epoca in cui la scelta è tra decadentismo e fascismo, sicché il primo è meglio).

Con bacioni

Luigi

nota: pubblichiamo questa lettera del febbraio ’73, neanche due anni dopo la nascita del manifesto, perché è indicativa di quel che era allora il nostro giornale e di quale fosse la filosofia giornalistica di Pintor. E’ una lettera severa nei confronti di quel giornale artigianale che era (era?) allora il manifesto ma anche ironica, come appunto Luigi è sempre stato. Nel 2002 quando ritrovò questa lettera rimettendo a posto le sue carte, ce l’ha voluta regalare. E noi la regaliamo ai nostri lettori.

Nb. Emmellista sta per marxista- leninista: si definivano così i gruppi ortodossi (filocinesi e non solo) degli anni Settanta. 

Alcuni editoriali di Luigi Pintor sul manifesto sono stati pubblicati qui e qui