Tra le conseguenze più subdole e insidiose della pandemia, o meglio delle misure politiche adottate per combatterla, si manifestò, fin dalla prima ondata, una sorta di demonizzazione dello spazio pubblico, aperto, gratuito, comune, considerato il regno infetto del contagio. E, di contro, una malriposta fiducia nel controllo che avrebbero potuto esercitare i proprietari privati sulle aree di propria competenza. Se si volesse racchiudere in una immagine questa contrapposizione si dovrebbe scegliere il bagnante solitario braccato dalla polizia su una spiaggia deserta, mentre frotte di operai si riversavano nei capannoni industriali della bergamasca con le ben note conseguenze.

Le riaperture, a livelli epidemici tutt’ora piuttosto vivaci, mostrano di seguire la medesima logica di penalizzazione del comune a favore del privato.

Il fenomeno risulta più chiaro ed evidente nei centri storici e lungo i litorali. Qui lo spazio pubblico è stato ampiamente trasferito ai privati per consentir loro di mantenere il distanziamento previsto (del resto assai raramente rispettato) senza diminuzione di clientela. Parliamo di una forma di risarcimento indirizzata soprattutto ai balneari e alle varie forme di ristorazione per le chiusure subite. Così, spiagge già libere sono state fagocitate dagli stabilimenti che praticano prezzi da monopolio; marciapiedi, piazze, vicoli e parcheggi dei centri storici invasi da tavolini e fioriere poste a delimitare il territorio conquistato. Dal quale nessuno sarà facilmente disposto ad arretrare.

La pandemia ha chiaramente mostrato la fragilità e al tempo stesso la profondità dei guasti che la monocultura del turismo e dell’industria ricreativa producono sui territori che ne sono stati interamente occupati. Come accade per le monoculture in generale un unico fattore di crisi può colpire interamente e senza rimedio l’economia e le condizioni di vita del territorio su cui insistono.

In agricoltura una malattia delle piante, nell’industria estrattiva il crollo del mercato di una determinata materia prima, comportano conseguenze devastanti. Il turismo non fa eccezione, salvo che i suoi caratteri monoculturali si producono in maniera meno immediata ed evidente. La sua ripresa, comunque in presenza di una importante circolazione del virus e delle sue imprevedibili varianti, si configura come una accentuazione ulteriore dello sfruttamento intensivo e monoculturale dei centri storici e dei litorali.

Il caso di Roma ne fornisce un esempio evidente, quanto alla cessione di spazi pubblici urbani e al loro uso. Si punta, insomma, complice l’euforia da dopo-lockdown, al ripristino rafforzato dello stesso modello turistico ricreativo paralizzato dall’insorgenza epidemica.

La movida ad alta densità con i suoi indesiderati «effetti collaterali», volentieri stigmatizzata come irresponsabile anarchia dei comportamenti, è in realtà il risultato della macchina che la produce, ne determina le forme, l’estensione e l’intensità. Una macchina alimentata dalla politica e dalla scelta di accumulare consenso attraverso la soddisfazione del maggior numero possibile di interessi corporativi spacciandoli, sempre e comunque, per fattori di sviluppo.

Nell’affollatissima campagna elettorale per le prossime elezioni comunali della capitale ben poche parole vengono dedicate alla critica di questo modello, preferendo imputare al termine generico e benpensante di «degrado» quelle che sono in realtà storture storiche del «sistema-città». Si preferisce di gran lunga parlare di ciò che non è stato fatto, delle «periferie abbandonate a sé stesse», dell’assenza e del disinteresse. Giusto, encomiabile preoccupazione urbanistica e sociale.

Malvolentieri, tuttavia, si parla di ciò che è stato fatto, dei danni, spesso irrimediabili, prodotti laddove si è invece intervenuti. Chi ha concesso le centinaia di licenze contigue che hanno trasformato vaste aree della città antica in monoculture turistico ricreative, consumando vieppiù le risorse ambientali (che non sono solo quelle estetiche) e che in fondo determinano il valore di mercato stesso dei centri storici?

Chi ha alimentato le monoculture dello shopping e l’espansione costante delle cittadelle della politica? (il numero dei palazzi è ben più dannoso e costoso di quello dei deputati che ossessionava i 5 stelle).

Di tutto questo si discute assai malvolentieri perché giunte di centrodestra e di centrosinistra si sono cimentate entrambe disastrosamente in queste imprese di «modernizzazione» conservatrice e corporativa. Chi avrebbe il coraggio di cimentarsi invece su un’«ecologia della città» e sul suo sviluppo sostenibile, se non altro dopo aver sperimentato la potenza devastante di un virus?

Il centro storico e la periferia di Roma non sono due città distinte, come le descrive il linguaggio biforcuto della politica municipale. Quel che accade dentro le mura produce i suoi effetti fuori. E viceversa. Un unico sistema sanguigno con i suoi blocchi e le sue patologie.

Ma segmentare, stilare elenchi solo apparentemente pragmatici di errori e di rimedi, di guasti e di riparazioni, rivolgersi all’una o all’altra categoria di interessi, vantandosi di «parlare alla gente» è certo più facile che articolare un’idea di questa mezza metropoli stremata e del suo incerto futuro.