L’ultima vertenza sindacale a Hollywood ha visto gli sceneggiatori scendere in campo contro gli agenti che in teoria rappresentano i loro interessi con gli studios ma che col ruolo sempre maggiore delle agenzie nel «packaging» di film e serie Tv, assomigliano in realtà sempre di più a produttori e quindi a controparti nella catena produttiva.

La Wga (East e West), storico sindacato degli sceneggiatori, è da sempre fra i più attivi e agguerriti contro gli studios, a difesa della categoria più debole e bistrattata della filiera audiovisiva.

Nonostante tutto, però, gli sceneggiatori sono assai più tutelati dell’altra principale categoria dedita al lavoro scritto: i giornalisti.

Gli impiegati del Los Angeles Times ad esempio – il maggiore quotidiano della California e della costa Ovest – hanno avuto il loro primo sindacato interno solo l’anno scorso, dopo ben 137 anni di storia.

La testata, infatti, fu fondata da un vero padre-padrone, Harrison Gray Otis, membro fondante della plutocrazia cittadina all’epoca del primo sviluppo della regione.

Negli anni in cui le grandi oligarchie combattevano le loro guerre più cruente con i militanti sindacali dell’Umwa e Iww, Otis fa del suo giornale una clava del padronato con la dichiarata missione di estirpare le «union».

Nel secolo successivo, l’L.A. Times ha vissuto alterne vicende, giungendo, negli anni ’90, a concorrere alla pari con il New York Times, pur mantenendo nel Dna una cultura profondamente avversa alla contrattazione collettiva.

 

Alla fine del secolo scorso la testata è passata per successive svendite, prima alla holding del Chicago Tribune, essa stessa successivamente rilevata da Sam Zell, finanziere rottamatore dell’era subprime che la spolpa fino al fallimento (una bancarotta che azzera buonuscite e fondi pensione di centinaia di giornalisti prepensionati e le ferie accumulate degli impiegati).

In questa traumatica parabola discendente, che porta in pochi anni la redazione da oltre mille persone a circa 300, il dato costante è la sensazione di impotenza dei giornalisti in balia di successive direzioni senza nessuna voce collettiva in capitolo.

Alla fine del 2017 i redattori, stremati, contattano la NewsGuild, associazione dedita alla sindacalizzazione di redazioni tradizionali e digitali, e lo scorso autunno fondano il primo sindacato del giornale con uno storico voto di 248 sì contro 44 no.

Malgrado l’opposizione e le minacce velate del management, i giornalisti cominciano a formalizzare una serie di vertenze ed esercitare pressione affinché la testata venga nuovamente ceduta. E appena un mese dopo il voto sindacale è effettivamente così: il Times viene acquistato da un imprenditore miliardario, magnate del settore biomedico, al prezzo di $500 milioni.

Ad anni di peripezie subentra un momento di cauto ottimismo.

Dopotutto, sulla carta, il nuovo proprietario, Patrick Soon-Shiong, ricco medico imprenditore di origini sudafricane e coreane, sembra corrispondere al meglio che sia lecito sperare per un giornale: un editore-mecenate dalla dichiarata fede nell’importanza del giornalismo e dalle tasche sufficientemente profonde da sostenerlo (il «modello» Jeff Bezos, per intenderci, con il Washington Post).

In realtà molti problemi di fondo rimangono.

Intanto quello fondamentale del rilancio di un giornale spolpato da una proprietà predatrice e alle prese col cambiamento strutturale del settore.

L’entrata alla Globe Lobby del palazzo che ospita il Los Angeles Times

 

Soon-Shiong ha cominciato a invertire la rotta con una campagna di assunzioni per ricostruire la redazione: nel giro di otto mesi porta i giornalisti da 300 a più di 500. Assume un nuovo direttore, Norm Pearlstine, veterano di Time, Wall Street Journal, Bloomberg e Forbes, e trasloca la redazione in un nuovo edificio a otto piani, assorbendo in meno di un anno una perdita di $50 milioni (e prevedendo di sborsarne altrettanti nel 2019).

L’obiettivo è ora di portare gli abbonamenti digitali dagli attuali 157.000 verso i 3,5 milioni del New York Times o almeno il milione e mezzo del Washington Post.

In gran parte si tratta proprio di tentare una controffensiva contro il colosso di New York, che a Los Angeles non solo ha fatto razzia di firme prestigiose proprio dal Times ma – con grande onta della redazione – ora diffonde un’edizione elettronica dedicata proprio alla California.

Poi c’è da trovare la chiave per resistere a Google e Facebook, le piattaforme costruite attorno a contenuti gratuiti (compresi quelli giornalistici) che monopolizzano il mercato pubblicitario.

Soon-Shiong ha realizzato la propria fortuna sull’innovazione della tecnologia medica e bioinformatica e parla di applicare l’«analisi predittiva» al business model giornalistico.

Nella nuova sede ha designato il quinto piano come un «reparto transmediale» per la confezione di contenuti video (è stata lanciata una striscia giornalistica coprodotta con l’emittente via cavo Spectrum), podcast, realtà virtuale e videoludica oltre ai canali social.

Qui ha trasferito un’equipe scientifica dalle sue aziende bioinformatiche specializzata in analisi dei dati; dovranno applicare metodi «scientifici» per accompagnare una strategia multimediale volta ad «acchiappare i trentenni e i sedicenni, gente che non solo non conosce la carta stampata, ma non usa news – vuole app – applicazioni pratiche», sostiene.

Nella caccia al lettore (o forse meglio, «utente») millennial figurano in primo piano settori come il food (molti giornali vi puntano ma il Los Angel Times era il giornale di Jonathan Gold, primo premio Pulitzer culinario, scomparso due anni fa e vuole ritrovare il primato), poi eSports (tornei di videogioco multiplayer) e altro «valore aggiunto» come l’annuale fiera del libro e ultimamente i viaggi «curati» da redattori (come la settimana alla Mostra del Cinema di Venezia accompagnati dal critico di cinema Justin Chang).

Soon-Shiong, che detiene brevetti per numerose invenzioni in ambito farmaceutico, ora prova a immaginare un nuovo modello giornalistico che – se riuscirà a sopravvivere – sarà comunque un qualcosa di molto diverso da ciò che è stato finora.

Nel mezzo di tutto questo rimane comunque la questione della rappresentanza degli «autori».

 

I giornalisti vogliono un contratto che codifichi le regole ad esempio della proprietà intellettuale degli articoli in modo più adeguato al «nuovo mondo» che stanno progettando al quinto piano, quello in cui i redattori sono sempre più creatori di contenuti multimediali ad alta e lunga diffusione.

Nella redazione reinventata, il negoziato sindacale comincia dunque ad assomigliare a quello delle controparti hollywoodiane (basti guardare all’ondata di film basati su podcast giornalistici).

I giornalisti, per esempio, chiedono diritti d’autore sullo sfruttamento secondario del loro lavoro – una rivendicazione che somiglia molto ad alcune istanze proprio del Wga.

E qui Soon-Shiong non nasconde una propria avversione per i sindacati, argomentando (proprio come fece Walt Disney in una delle vertenze più aspre di Hollywood) che i sindacati «rovinano il senso di solidarietà famigliare» di un’azienda e invocando lo spirito di corpo di una squadra che «deve giocare in gruppo» nel momento di crisi e rispettare l’investimento dell’azienda.

Anche nella nuova era del giornalismo, se mai riuscirà a nascere, alcune dinamiche sono insomma destinate a non cambiare poi tanto.