Tagli alle spese dei ministeri da 2 miliardi di euro e privatizzazioni pari all’1 per cento del prodotto interno lordo. Potrebbero essere queste le «scelte difficili» di cui parla il ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti nella premessa alla nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef), il primo passo verso la definizione della prossima legge di bilancio.

DUE ANNUNCI, passati inosservati nel fumoso dibattito sui «numeretti», che andrebbero verificati. Non è infatti facile sottrarre risorse alla spesa pubblica dei ministeri già ridotta dalla crisi del 2008 attraverso il blocco del turn-over o i ritardi dei rinnovi dei contratti. Sembra però che Giorgetti sia determinato a farlo. Dovrebbe però cercare di eliminare 1,7 miliardi di spese in più rispetto a quanto preventivato in precedenza. Prima di lui, molti non sono riusciti a tagliare cifre inferiori.

COMPLICATA sembra anche la realizzazione delle «dismissioni» in tre anni (2024-2026). Il progetto consisterà nella cessione ai privati «di partecipazioni societarie pubbliche, rispetto alle quali esistono impegni nei confronti della Commissione europea legati alla disciplina degli aiuti di Stato, oppure la cui quota di possesso del settore pubblico eccede quella necessaria a mantenere un’opportuna coerenza e unitarietà di indirizzo strategico». Di quali società pubbliche si tratterebbe? Esisterà un soggetto interessato ad acquisirle?

DALLA NADEF emerge un aspetto politico sostanziale: il ritorno all’ordine dopo la sospensione del patto di stabilità e crescita per il Covid. Nel testo firmato da Giorgetti è evidente l’intenzione di ricalibrare le finanze pubbliche rispetto alla nuova e non scontata intesa che dovrebbe entrare in vigore dal prossimo gennaio. Ma ciò potrebbe rafforzare a uno scenario economico depressivo, tra l’altro confermato dal ritorno della crescita sotto lo zero virgola. Un esito prodotto dalla fine del rimbalzo tecnico del Pil seguito al crollo devastante (in Italia meno 8,9% del Pil) provocato dai «lock down» decisi per rallentare il Covid tra il 2020 e il 2021.

IN QUESTA CORNICE il governo parla la neolingua dei «tecnici». La «prudenza» sui conti tanto invocata in questi giorni indica in realtà l’apparentemente inesorabile ritorno all’austerità. L’avevamo dimenticata dopo quattro anni di sospensione del «patto di stabilità» (la cosiddetta «clausola di salvaguardia»). Dal 2024 sarà, di nuovo, la regola.

LA SITUAZIONE è «delicata» ha scritto Giorgetti. Ed è stata aggravata «dall’onere degli incentivi edilizi, dal rialzo dei tassi e dal rallentamento del ciclo economico internazionale». Pur in presenza di un taglio delle prospettive della crescita del prodotto interno lordo (Pil), da verificare sia nel confronto con la Commissione Europea che rispetto ai dati di un’economia in peggioramento, il governo si propone di sostenere redditi e salari attraverso un aumento del deficit pari a 15,7 miliardi che servirebbero per finanziare le seguenti misure: quella spot, cioè non strutturale, del taglio del cuneo fiscale per i redditi da lavoro dipendente (10 miliardi all’incirca). Ci sarebbero 3-4 miliardi per finanziare una parte della riforma dell’Irpef prospettata nella delega fiscale. Andrebbero finanziati settori rilevantissimi come la sanità o il rinnovo dei contratti pubblici, interventi sulle pensioni («quota 103», dell’Ape sociale e Opzione donna), le spese indifferibili delle missioni internazionali. E ancora la detassazione delle tredicesime, il sostegno alla «natalità» e alle famiglie. Complessivamente altri 6 miliardi. Non è detto che siano facili da trovare.

LE COPERTURE mancanti dovrebbero essere assicurate dai nuovi tagli alla spesa dei ministeri. Sempre che siano realistiche. E sempre che Bruxelles sia d’accordo con l’impostazione della manovra. Lo sapremo presto. E comunque entro il 21 novembre. La scommessa decida dal governo potrebbe anche essere vincente quest’anno. Ma il prossimo sarà diverso. Il deficit dovrà essere abbassato, le altre regole rispettate. Ssarà dunque difficile trovare le risorse per finanziare misure già oggi giudicate insufficienti per rimediare all’inflazione e alla carenza degli investimenti. Senza contare che, come le precedenti, anche la crisi in corso è affrontata con gli strumenti che rischiano di peggiorarla.