Lo rilevava già Enrico Berlinguer in una intervista rilasciata a Ferdinando Adornato nel dicembre del 1983, dove ricordava come egli stesso avesse proposto al 22° congresso della Fgci un convegno sulla futurologia, come capacità di affrontare le nuove contraddizioni del tempo.

Alla maliziosa domanda dell’intervistatore sul «sole dell’avvenire», mantra di un futuro socialista mai avveratosi, il segretario del Pci rispondeva che “c’è un paradosso: sul sole dell’avvenire oggi discutono più gli scienziati che i comunisti”. Sono passati 35 anni e la situazione non è mutata se non in peggio, visto il disgregarsi del pensiero e della forza comunisti.

La contingenza elettorale non ha certo favorito la ripresa di un dibattito politico dotato di un certo respiro. Forse era persino ingenuo sperarlo. A maggior ragione va apprezzato come gli articoli di Mario Dogliani e di Gianni Ferrara (il manifesto, 26 gennaio e 16 febbraio) siano in felice controtendenza. Il tema posto è di grande complessità, ovvero come rispondere alla crescente disoccupazione strutturale indotta dai sempre più veloci processi di digitalizzazione e di robotizzazione in atto in tutti i settori dell’economia. Non mancano analisi di vario genere, diverse catastrofiste, altre più ottimiste, alcune persino agiografiche legate alle “magnifiche sorti e progressive” della tecnologia. Ma tutte sorgono e circolano più in ambito scientifico e sociologico che non politico. Anzi la politica non pare neppure sfiorata dalla drammatica complessità del problema.

MENTRE CIÒ CHE APPARIVA argomento del futuro, è oggi realtà, nella dimensione più distopica possibile. Mi fermo ad un esempio solo che mi pare emblematico di come si sono invertiti i flussi della globalizzazione e quanto aggressiva sia la tendenza a sostituire il lavoro morto – quello incorporato nei robot – al lavoro vivo. La cinese Tianyuan Garments ha annunciato che aprirà una fabbrica tessile in Arkansas, grazie a generosi incentivi diretti e agevolazioni fiscali da parte della Contea. Potrà produrre 23 milioni di t-shirts all’anno, made in Usa, al prezzo medio di 33 centesimi di dollaro. Secondo il presidente della società cinese, che lavora anche per Adidas, Armani e Reebok, in nessun paese del mondo il costo del lavoro sarà così basso.

La fabbrica sarà infatti interamente gestita da robot, con una velocità di produzione calcolata in 26 secondi a pezzo. Per ora la Tianyuan si è impegnata ad assumere 400 persone a Little Rock, la capitale dell’Arkansas: saranno prevalentemente operatori delle macchine. Ma fino a quando questa occupazione durerà?

L’estensione della robotizzazione aggredisce tutti i settori, compreso quelli ad elevato contenuto di lavoro intellettuale. Un travaso di lavoratori dall’uno all’altro segmento produttivo, come successe nelle precedenti rivoluzioni industriali, è oggi sostanzialmente illusorio. Certamente una resistenza a processi di distruzione occupazionale può e deve essere intrapresa. Senza vagheggiare moderni luddismi.

Intervenire sugli algoritmi che regolano velocità e intensità della prestazione lavorativa è oggi un punto decisivo che qualifica la contrattazione. Ma il problema è che la robotizzazione riguarda l’intero mondo del lavoro, non solo quello manifatturiero, ove ancora si può contare sulla forza operaia e buoni tassi di sindacalizzazione. Ma non sempre e non ovunque. In più i processi si muovono sempre più rapidamente.

Secondo Raymond Kurzweil, uno dei futurologi più visionari, l’anno di svolta della storia universale potrebbe essere vicino, tra dieci/dodici anni, quando l’intelligenza artificiale riuscirà a trascendere i limiti del cervello umano, fermo a una capacità computazionale di soli cento trilioni di connessioni, peraltro lente.

SE UNA SIMILE PREVISIONE fosse confermata anche soltanto in minima parte è evidente che la sola contrattazione potrebbe ben poco. Diventa strategico da subito muoversi per una consistente riduzione dell’orario di lavoro – ovviamente a parità di retribuzione per non comprimere la domanda interna –; per un piano di interventi pubblici diretti nell’economia in quei settori innovativi che il capitale disdegna, inventando anche nuove forme di lavoro; per la conquista di un salario di cittadinanza che sia sì incondizionato, ovvero slegato dalla prestazione individuale di lavoro, ma non certo dalla capacità produttiva dell’intera società, senza la quale non vi sarebbe ricchezza reale da ridistribuire in modo equo. Dogliani richiede un nuovo compromesso fra stato e mercato per «socializzare la ricchezza prodotta dalle macchine». Ma per fare questo – afferma – ci vorrebbe uno stato fortissimo. Il che è contraddetto dallo svuotamento di poteri dello stato-nazione da un lato e, osserva Ferrara, dal fatto che «alla base della società resterebbe immutato il rapporto capitalistico di produzione e la posizione dominante del capitale».

IL NOCCIOLO DURO e insopprimibile dei rapporti di forza fra capitale e lavoro si ripropone, peraltro su scala almeno continentale – visto che quei processi di robotizzazione sono guidati e implementati da imprese multinazionali – e ciò succede proprio mentre all’apparenza il lavoro sembra sparire o regredire a livello servile. Come di fatto ci dicono i processi in corso. Il che ci indica che anche un nuovo compromesso sociale, come fu quello che si costruì nel terzo quarto del secolo passato, poggia le sue basi sul conflitto tra le classi. Se quella operaia non ha la compattezza e la centralità d’un tempo, vi è però l’estensione a livello sociale delle varie forme di sfruttamento, oltre che di negazione di diritti, che può costituire la base oggettiva più che di un’alleanza, di una unità del variegato e represso mondo del lavoro. Ed è solo così e su questo che si può ricostruire una sinistra a livello politico. Vaste programme? Sì certo. Ma esserne consapevoli è già un buon inizio.