Tra il 1628 e il 1629, su due piccole tavolette (l’una di centimetri 22,5 per 18,16 oggi al Rijksmuseum di Amsterdam; e l’altra, di centimetri 15,5 per 12,7, conservata a Monaco nella Alte Pinakothek) Rembrandt (1606-1669) traccia due suoi autoritratti. Sono entrambi concepiti con un medesimo gioco di luce e ombra, ed eseguiti ad olio in osservanza dei medesimi accostamenti cromatici: terre e verdi guasti, e rosati carnicini. E un tocco di bianco a bordare d’un orlo di bavero il collo. Possiamo dire che siamo di fronte a un medesimo ritratto reso in doppia versione. Rembrandt ha tra i ventidue e i ventitré anni. Glabro, folti e arruffati i ricci capelli castani. Una luce proveniente da sinistra investe la guancia destra del giovane pittore e ne mette in rilievo il diffuso rossore. Si riverbera poi a illuminare la scabra parete dello sfondo conferendo alla testa il profilo di una silhouette contro luce, poiché lascia in ombra la fronte, gli occhi e metà del mento e intero il lato sinistro del volto.

Rembrandt si mostra così con gli occhi che appaiono custoditi da un velo d’ombra. Essi si lasciano così appena intravedere da chi osserva il duplice autoritratto, e tuttavia egli indovina che quegli occhi sono ben aperti e che lo guardano, ma un velo, se pur leggero, si frappone a ribadire che il pittore ha il pieno privilegio dello sguardo: guarda, ma non vuol esser guardato. Rembrandt sembra perentoriamente affermare quella prerogativa e la ribadisce l’anno seguente, nel 1630, in una acquaforte, Autoritratto con berretto e occhi spalancati (sta al Museum het Rembrandthuis di Amsterdam). Qui, nel caso qualcuno avesse a interpretare quella penombra adagiata sugli occhi come l’ammissione da parte sua d’una qualche insufficiente acutezza del suo sguardo, sembra rivolgersi, a noi che ci poniamo davanti a lui, dicendoci: «nessun dubbio, ho occhi capaci di vedere assai, e più che voi non vediate». L’occhio del pittore, come è usanza dire, che, certo, gran parte ha nello svolgimento e nel risultato dell’opera sua quando diviene una sola cosa con la mano e con la mente sue.

Ammiratore di Rembrandt, un giovane pittore inglese ai suoi esordi, destinato pur egli a imperitura fama, Joshua Reynolds (1723-1792), nel 1749 prima di partire da Londra per un trascorrere un triennio in Italia e disporsi a un lungo soggiorno di studio a Roma, dipinge un suo Autoritratto ‘a venticinque anni’. Si tratta di un olio su tela di 63 centimetri per 74, conservato nella National Portrait Gallery di Londra.
Qui, sul fondo, diversamente dalle due tavolette di Rembrandt, si è depositata una oscurità compatta e uniforme entro la quale appena distingui una tela, che intuisci appoggiata forse a un cavalletto. È una variazione minima di quel semibuio, indotta da una neutra superficie inclinata rispetto al perpendicolo, laggiù, della parete. Vestito d’una sua cappa bruna, da quella oscurità si affaccia il giovane Reynolds. Ampie le maniche della gabbanella donde emergono brevi sbuffi d’una camicia bianca e, la cappa sbottonata, sul davanti si accosta a quel lino candido del colletto il bordo cilestrino di un giustacuore.

In questo autoritratto Reynolds delinea il suo volto e affida al gesto della mano destra i significati che ripone in questa immagine di se medesimo. Gesto inconsueto se scorriamo la galleria di autoritratti in cui si raffigurano i pittori dal Quattrocento in poi, dove ritrovi la loro effigie tra i personaggi del dipinto o sotto le spoglie di uno dei protagonisti delle storie illustrate. E poi, senza infingimenti, davanti al cavalletto, nello studio, pennelli e tavolozza alla mano, le insegne del mestiere. Quello di Reynolds è il gesto che Dante, abbagliato dai raggi del sole, dice nel decimoquinto del Purgatorio (13-15) «io levai le mani inver la cima/delle mie ciglia, e fecimi ‘l solecchio,/che del soverchio visibile lima», ossia tempera l’eccesso di luminosità che deforma la visione o la impedisce. La mano levata di Reynolds, il solecchio, stende un’ombra sugli occhi del giovane pittore: al suo riparo gli occhi son posti in grado di discernere forme e distanze, proporzioni e contorni, ossia nella condizione di ritrarre con precisione e nettezza.