Mâati Monjib, 60 anni, giornalista e storico, cattedra di Studi africani all’università Mohammed V di Rabat, è una figura di intellettuale della sinistra marocchina con una storia di attivismo per i diritti umani che risale ai tempi del regno di Hassan II. Rientrato stabilmente in Marocco dopo la ventata liberalizzatrice del 1998-99, nel 2011 durante le Primavere arabe ha co-fondato l’Associazione marocchina per il giornalismo investigativo. È già comparso davanti a un tribunale una ventina di volte, ha condotto scioperi della fame e scritto vibranti editoriali contro la repressione sul quotidiano Le Journal e il settimanale Zaman. Amnesty International e l’Osservatorio per la protezione dei difensori dei diritti umani esprimono sconcerto per il suo arresto avvenuto lo scorso 29 dicembre a Rabat e ne chiedono l’immediata liberazione.

 

 

 

 

 

 

 

 

Mâati Monjib non è l’unica voce critica a subire una vera e propria persecuzione giudiziaria e politica in grado di mettere in campo una grande varietà di accuse.

 

 

Il cartello dice «Libertà per Hajar Raissouni», la reporter incarcerata e condannata nel 2019 per «aborto illegale» e rapporti sessuali extramatrimonio. Poi graziata dal re Mohammed VI (Ap)

 

 

 

«Lunga vita al popolo», canzone da 9 milioni di visualizzazioni, è costata un anno di carcere al rapper Gnawi per le critiche rivolte alle forze di sicurezza e (indirettamente) al re (Ap)

 

 

Omar Radi, reporter specializzato in land grabbing e attivista per i diritti umani, è in carcere da luglio per spionaggio e stupro. Amnesty considera il caso una montatura (Ap)