Il centrodestra non voterà lo scostamento di bilancio di 8 miliardi, oggi pomeriggio al Senato. Forse. O forse invece sì. Una decisione definitiva ancora non c’è. Il voto dovrebbe essere lo stesso per tutti ed è questo, sempre che sia confermato dai fatti, il risultato sostanziale del vertice tra i leader di ieri. Il voto, almeno sulla carta, dipenderà dall’accettazione o meno da parte del governo della proposta in 4 o 5 punti che i tecnici dei 3 partiti di centrodestra, due per ogni formazione, hanno approntato ieri sera. Le previsioni degli stessi proponenti sono che qualcosa il governo accetterà. Ma non tutto e di conseguenza tutti e tre i partiti si asterranno, come già fatto ieri pomeriggio nella riunione delle commissioni congiunte Bilancio e Finanze. «FdI non è disposta a votare alla cieca», spiega Meloni al termine del summit. «Non abbiamo deciso come votare senza risposta alle nostre proposte ma siamo assolutamente disponibili al confronto», si finge aperto a ogni possibilità Salvini.

L’assemblea dei deputati di Forza Italia, che si riunisce dopo il vertice, appare però meno rigida. Il gruppo azzurro si pronuncia a larghissima maggioranza per il voto a favore, se verranno accolte le richieste azzurre sul rinvio delle scadenze fiscali e sullo stanziamento dei sussidi a fondo perduto per autonomi e partite Iva. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri non perde un attimo: «Le proposte avanzate in particolare da Forza Italia sono da considerare favorevolmente perché incrociano esigenze reali del Paese». È la vera partita che governo e maggioranza stanno giocando, con il doppio obiettivo di raccogliere l’invito al dialogo del capo dello Stato dribblando gli «impresentabili» Salvini e Meloni e soprattutto di spaccare il centrodestra. Dopo il vertice di ieri quella mèta sembrerebbe fuori portata ma non lo si potrà dire sino all’ultimo.
In realtà l’astensione dell’opposizione intera non è neppure un timido segnale. Per lo scostamento serve la maggioranza assoluta e tra astensione e pollice verso la distinzione è solo formale. La maggioranza però è tranquilla. Con o senza opposizione i 161 voti necessari ci saranno. Secondo i calcoli del Pd, anzi, ce ne dovrebbero essere parecchi in più: 169. Più realisticamente il margine davvero certo dovrebbe essere di quattro voti. Certo, a palazzo Madama non si può mai dire. Ma la buona notizia, per la maggioranza, è che non pare si registrino nuovi casi di positività o isolamento fiduciario. Dovrebbe anzi rientrare in aula qualcuno rimasto in isolamento negli ultimi 10 giorni.

Una volta incassato il semaforo verde del parlamento il governo prenderà la rincorsa per varare il dl Ristori 4 già domenica. La tabella di marcia è obbligata perché lunedì 30 è la data di scadenza delle cartelle Irpef, Ires e Irap che il decreto sposterà sino ad aprile. Sulla platea dei beneficiari non c’è però ancora accordo nella maggioranza. Dovrebbe riguardare le aziende con fatturato sino a 50 miliardi che nel primo semestre 2020 hanno perso almeno il 33% del fatturato. Un’area della maggioranza, con la sottosegretaria di LeU Cecilia Guerra, ma anche una parte dei tecnici del Mef vorrebbero restringere la platea fissando la perdita del fatturato al 50%, ipotesi però contrastata con massima determinazione da Italia viva.

Inevitabilmente nel dibattito di oggi spunterà il tema incandescente del Mes, ma il governo avrà gioco facile nell’evitare l’argomento. La decisione di Gualtieri di limitarsi, in vista della riunione di Ecofin che lunedì avrà all’ordine del giorno proprio la riforma del Mes, a un’informativa con le commissioni Finanze congiunte di Camera e Senato serve proprio a rinviare per l’ennesima volta uno showdown che sarebbe stato invece inevitabile in aula. Il centrodestra, pur avendo in materia posizioni diverse al proprio interno, ha provato ieri a modificare la decisione del ministro costringendolo a presentarsi in aula al Senato ma è stato battuto ai voti.

Il momento della verità però non potrà essere rinviato troppo a lungo. Ieri si è esposto apertamente lo stesso ministro della Salute Roberto Speranza, che peraltro viene da un’area, quella di LeU, sin qui diffidente nei confronti del prestito sanitario di 37 miliardi quasi quanto i 5 Stelle: «Il Mes va usato». Immediata la replica di Conte: «Capisco Speranza ma il problema non è nello strumento ma nell’avere risorse adeguate. Faremo in modo che ci siano». Sembra un no tondo. Non lo è. La contrarietà del premier al prestito e alla spaccatura della maggioranza che comporterebbe è chiara. Però mai dichiarata a viso aperto nelle sedi proprie.