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La malattia del gioco secondo GoldoniArriva all’Argentina (fino a domenica 28) al termine di una densa tournée, uno degli spettacoli unanimemente apprezzato tra i migliori della stagione, La locandiera di Carlo Goldoni messa in scena da Antonio Latella, protagonista e artefice massima Sonia Bergamasco nel ruolo del titolo. È un’operazione forte quella del regista, che sgombra il campo di una tradizione secolare che vedeva protagonisti da sempre jabots e falpalà, ammicchi e malizie di una figura femminile che rifiuta per le nozze, e per la vita e per l’azienda (la locanda che gestisce appunto) sia la nobiltà fasulla che la concretezza maschia e rude dei clienti del suo albergo. E sceglie invece, tra lacrime e sudori, non tanto l’impresa quanto la sua vita, da unire a chi ritiene più sensato e concreto in quell’universo maschile, ovvero il servitore della locanda. Che per altro anche il padre di lei, prima di morire, aveva indicato come sposo ideale (e concreto futuro gestore) dell’esercizio.

NON A CASO Latella, nel breve testo sul volantino dello spettacolo, rende omaggio al regista di cui vuole raccogliere l’eredità, il genio di Massimo Castri che in una sua storica messinscena dei Rusteghi scoprì a tutti sul palcoscenico la forza esplosiva dei racconti goldoniani, fin dalla prima battuta, così ricca di senso: «De boto xe finìo Carneval, e non abbiamo visto neanche una commedia nuova».Sonia Bergamasco è Mirandolina, irresistibile e inquietante

ORA in questa Locandiera, quell’interno alberghiero (di Annelise Zaccheria) appare sobrio, una enorme cucina-soggiorno-salapranzo chiusa da una incombente parete lignea a cassettoni. I costumi (di Graziella Pepe) suonano quasi a noi contemporanei: i «nobili» in jeans o in tuta, il cavaliere in cappotto di cammello, e il cameriere Fabrizio in lino bianco. Mirandolina in tshirt bianca, che poi si trasformerà in casalinga tenuta, è sempre candida. Le due comiche si agitano invece in fatale raso nero. La recitazione è forte e «sottolineata», perché quella sorta di «teorema» sociale sia ben chiaro e consapevole. E le fantasie seduttive come i corteggiamenti (ora più ora meno fasulli) hanno ogni volta ben chiaro un secondo fine al di là dei convenevoli sociosalottieri.
Si ride e ci si diverte, ma un fondo di amarezza (e a tratti quasi di veleno) è sempre in agguato: l’analisi sociale e comportamentale è ineluttabile per lo spettatore, che nella cucina di quella locanda vede chiaramente un mondo intero, di interessi e debolezze, di illusioni e di organizzazione sociale. Si ride e si pensa. I «sentimenti» si fanno percorsi della ragione, lasciando intatto a Goldoni il suo valore «comico», per quanto amaro.

GLI ATTORI sono chiamati a una gran prova, dando corpo e senso a questo Goldoni «nostro contemporaneo», già nel settecento specchio e ingegnere di valori, veri e fasulli, che oggi sono scoperti e palesi, a cui Franco Visioli dà coerenti sonorità. Protagonista è Sonia Bergamasco, attrice importante che qui si impegna senza riserve, irresistibile quando giuliva, e inquietante quando riflette, in una grande prova di recitazione. Come per altro si può dire di tutti gli interpreti: Ludovico Fededegni è il cavaliere di Ripafratta combattuto nei sentimenti e nelle posizioni di finto furbo, i nobili suonati di Giovanni Franzoni e Francesco Manetti, le comiche teatranti drammaticamente disposte a tutto (Marta Cortellazzo e Maria Pizzigallo), e il compunto cameriere Valentino Villa, già consapevole di un futuro borghese che vedrà crescere il proprio peso sociopolitico. Un gran lavoro di squadra, che lascerà una traccia, come per Goldoni hanno significato le regie di Castri e prima ancora di Strehler, rendendo lo scrittore veneziano una strada sempre maestra dello spettacolo.