È il 2024. Come oggi, ma non proprio come oggi, visto che si è ormai giunti al 102° anno dell’«era fascista». Il «ducefondatore» è morto da anni, ma il regime continua, anche grazie al fatto che la Seconda guerra mondiale non ha avuto luogo, ma non per questo si sono evitate le leggi razziali e il dominio dell’Impero, del resto «i coloniali» vivono in zone separate dal resto della popolazione. Questa l’Italia in cui crescono Italo e Giovanni, gli adolescenti protagonisti, al pari della loro coetanea Sofia, del romanzo di Francesco Filippi, Bye, bye Benny! (Up Feltrinelli, pp. 176, euro 15) che sembra leggere nello specchio della distopia l’eco inquietante di un Paese minacciato dall’egemonia dell’estrema destra. Per Filippi, storico e formatore 41enne cui si devono, tra gli altri, i volumi Mussolini ha fatto anche cose buone (2019), Ma perché siamo ancora fascisti? (2020) e Noi però gli abbiamo fatto le strade: Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie (2021), tutti per Bollati Boringhieri, si tratta della prima e riuscita prova narrativa: un romanzo forse pensato per i più giovani, ma che con garbo e ironia pone a tutti i lettori domande fondamentali.

Francesco Filippi

Nell’Italia raffigurata in «Bye bye Benny!» esistono solo tre reti della «italvisione», come il regime ha ribattezzato la tv, e una di queste, dedicata a commentare i discorsi del «ducefondatore» e i contenuti della dottrina fascista, si chiama «Gerarchia». All’indomani dell’esclusione dai palinsesti Rai di Scurati e Terranova viene da pensare che ci sia chi davvero immagina così l’informazione pubblica. Cosa pensa dell’accaduto?
Che uno cerca di metterci tutta la fantasia del mondo e poi la realtà mette la freccia e lo supera. Nel senso che quando si è trattato di immaginare un rapporto tra un regime totalitario di lunghissima durata come quello che cerco di presentare in questo romanzo distopico e l’informazione, l’idea di fondo era che ci fosse un controllo fortissimo e strutturato sulla tv come sul web e su ogni altra forma di comunicazione. Del resto, il modello a cui mi sono rifatto è quello presente in molte democrature o regimi totalitari tuttora esistenti intorno a noi, dalla Cina alla Russia. Il fatto che si tenti di proporre una simile forma di controllo in diverse realtà non rende meno grave che oggi lo si voglia fare anche in Italia. Diciamo che purtroppo era banalmente prevedibile.

Lei è un giovane storico, un formatore e con l’associazione Deina in oltre dieci anni ha accompagnato oltre 30mila ragazzi nei viaggi della memoria: perché dopo una serie di saggi ha scelto di scrivere un romanzo e con dei ragazzi protagonisti, anche se forse che non è destinato solo al pubblico dei giovani?
Tutto nasce da una proposta che mi è stata rivolta, vale a dire provare a raccontare ai ragazzi di oggi, attraverso una storia ambientata durante il Fascismo, che cosa significasse vivere sotto quel regime: che so, magari una vicenda con una base storica riguardante la Resistenza per illustrare i valori dell’antifascismo. Invece ho provato a ribaltare il tavolo, a fare una cosa all’opposto, cioè ad immaginare che cosa significherebbe oggi vivere in un regime di quel tipo. Quindi ho semplicemente preso quello che è l’apparato repressivo di un regime come quello mussoliniano, le sue leggi e le sue regole ed ho trasportato il tutto nell’Italia di oggi, cambiando un po’ il contesto e applicandolo a una nuova realtà. L’effetto è immaginare una deriva, chiamiamola franchista, del mussolinismo senza la Seconda guerra mondiale, e spingere i tentativi di sopravvivenza del regime fino all’oggi, immaginato come l’anno 102 dell’era fascista. Si tratta effettivamente di un romanzo che non si rivolge solo ai più giovani, ma che cerca di stimolare un ragionamento complesso. Invita in particolare a chiedersi cosa rappresentano i valori della nostra società e come sarebbero diversi, al pari del nostro modo di vivere, se 79 anni fa non avessero vinto gli antifascisti.

Ad un certo punto c’è un dialogo tra due dei protagonisti che sembra racchiudere una delle sfide interpretative che il romanzo pone ai lettori. Giacomo spiega all’amico Italo che il senso ultimo del «fascismo eterno» è «quando ti convincono a smettere di interessarti al mondo, ti fanno capire che è meglio farsi gli affari propri e chi se ne frega degli altri». È qui che è racchiusa la modernità della minaccia descritta con linguaggio e strumenti arcaici, ma che prende una forma attuale nel libro?
Sì assolutamente. Credo che questo sia uno dei passaggi simbolici che sono serviti di più a me per capire quale sia la vera pervasività di un regime totalitario. Sono molto affezionato ad una lezione di lettura del fascismo che paradossalmente, o forse non troppo, non ci viene da uno storico, ma da un grande filosofo della lingua, un semiologo come Umberto Eco il quale diceva che il fascismo non era una filosofia, non era un luogo di costruzione delle idee, bensì era, ed è, una retorica, un modo di dire le cose, una forma mentale. In questo senso, il fascismo non si ripropone mai allo stesso modo o nelle forme che abbiamo conosciuto in passato. Così, parlando dei regimi autoritari che possono applicare la lezione mussoliniana, non credo che vedremo marciare per strada le camicie nere o che la gente verrà picchiata ai seggi per non votare. Ritengo che il prossimo fascismo non sarà tanto violento, quanto soporifero: non ti picchieranno ai seggi perché ti avranno già convinto prima che non vale la pena di andare a votare.

Senza troppo dire della trama del romanzo, si può anticipare che i giovani protagonisti inseguono un proprio sogno di libertà attraverso le rime della musica e il Paese intero si libererà riconquistando la possibilità di informarsi. È attraverso la riconquista della fantasia e della conoscenza che passa la liberazione?
Certamente. Siamo in qualche modo di fronte ad uno scontro di racconti. Quando il fascismo storico prese piede negli anni Venti tentò di imporre un proprio racconto pubblico a tutta la società italiana. E come vediamo dall’attualità, quel racconto è stato talmente pervasivo, talmente penetrante, talmente totalizzante, totalitario, che gli strascichi ce li abbiamo ancora tra le scatole. Oggi il racconto del fascismo non è roba da museo, basta aprire un qualsiasi giornale. Ecco quindi che una vera battaglia antifascista è anche una battaglia per un nuovo tipo di racconto pubblico che riesca a a far comprendere a tutti che cosa significhi davvero vivere in libertà. Avvicinandoci al 25 aprile, emerge ad esempio come il racconto relativo alla liberazione e alla Resistenza sia stato dato a lungo in qualche modo per scontato: si è così disperso, almeno in parte, un patrimonio accumulato negli anni della dittatura attraverso il dissenso, prima, e l’esplosione della rivolta poi. Per questo sono persuaso che la lotta ai fascismi odierni debba passare necessariamente da un nuovo modo di raccontarci, da una trasformazione di quello che noi raccontiamo anche a noi stessi. Ecco perché la battaglia antifascista è una battaglia di informazione.

Il manifesto ha lanciato un appello per tornare a manifestare a Milano il 25 aprile come avvenne, su iniziativa del giornale, nel 1994, quando per molti versi prese avvio la storia in cui siamo immersi oggi. Condivide questa scelta?
Certo, tornare a Milano è fondamentale per ricomprendere alcuni dei punti fondamentali della nostra tanto vituperata, ma ancora diciamo, resistente, democrazia. Siamo infatti di fronte ad un paradosso storico per cui negli anni ’90, con l’acqua sporca di Tangentopoli è stato buttato anche il bambino dei valori dell’antifascismo. La fine della Prima Repubblica e quindi la fine dei partiti che fecero la Resistenza ha portato ad una sorta di fine del racconto che aveva alimentato fino a quel momento la memoria pubblica. Anche giustamente la Resistenza è stata posta sotto una nuova luce storiografica, indagata e analizzata. Ma, d’altra parte non dobbiamo dimenticare che quelli che dal 1945 fino agli anni ’90 erano stati esclusi dal racconto pubblico perché non ne condividevano i valori, l’estrema destra, sono usciti dalle catacombe per prendere sempre più spazio. Perciò, oggi, manifestare a Milano, come in tutte le piazze in cui si festeggia il 25 aprile, significa in qualche modo riunirsi, tutte e tutti, intorno a valori che abbiamo a lungo dato per scontati o dimenticati. Il 25 aprile è una festa, e a chi dice che è una «festa divisiva» rispondo che è vero, visto che divide gli antifascisti dai fascisti. E per quanto mi riguarda, va bene così.