In Occidente gli editori dei giornali, visti gli investimenti pubblicitari su stampa in netto declino, per tentare di riequilibrare le proprie entrate stanno puntando con sempre maggiore decisione sulla crescita dei ricavi provenienti direttamente dai lettori, in particolare sugli abbonamenti (e ancora più in particolare sugli abbonamenti digitali che hanno un maggiore potenziale di crescita).

Il lettore sempre più al centro

È una strategia che ha molti pregi perché porta il lettore sempre più al centro delle politiche editoriali, alleggerisce la dipendenza da grandi e ingombranti investitori pubblicitari, punta inevitabilmente sul «giornalismo di qualità» per dare un valore percepito da parte del lettore e convincerlo così a diventare un abbonato (pagante) fedele.

Tutte ottime cose, ed è per questo che questa «svolta» strategica sta cambiando radicalmente il modello di business di molti grandi testate internazionali.

Al New York Times, dove gli abbonamenti attivati unicamente su digitale pesano oggi sui ricavi totali per il 23% (con un valore medio per abbonamento annuo di circa 120 dollari), ne hanno fatto l’asse portante delle loro strategie per il futuro. Ma anche altri grandi quotidiani internazionali come il Washington Post, il Financial Times o Le Monde seguono con sempre maggiore convinzione questa strada.

La «subscription-economy» insomma sta conquistando un numero sempre maggiore di giornali, tradizionali e non, negli Stati Uniti come in Europa e, con qualche ritardo, anche in Italia, con il crescente utilizzo su digitale di paywall (l’accesso gratuito solo a un numero limitato di articoli al mese) e di contenuti premium (il cui accesso è riservato esclusivamente agli abbonati).

Eppure nonostante il giustificato – e per molte ragioni anche auspicabile – successo, questa non è una strategia priva di importanti controindicazioni sulle quali ha senso fare alcune riflessioni.

Ma informarsi non è roba da i ricchi

La testata online Axios, ad esempio in un articolo dal titolo esplicito «The media haves and have nots» (I media per ricchi e quelli per chi non lo è) indica come questa politica editoriale stia contribuendo a marcare, ancora di più, differenze e divisioni nella società creando di fatto un’informazione per le classi più agiate e un’altra per chi non ha la possibilità economica di sostenere uno o più abbonamenti.

La giornalista Sara Fischer nel suo articolo parla esplicitamente di «news divide» citando il sociologo Rodney Benson della New York University: «Sempre più spesso, il giornalismo assume la funzione di potente forza di esclusione, finendo per mantenere le informazioni di qualità lontane da coloro che ne hanno più bisogno, scoraggiando chiunque, tranne i cittadini più ricchi e istruiti, a partecipare alla conversazione pubblica».

Anche un importante rapporto pubblicato a inizio anno dal Reuters Institute for the Study of Journalism conferma come ormai l’incremento degli abbonamenti sia diventato l’obiettivo prioritario per il futuro dell’industria dell’informazione.

Molte testate, per spingere ancora di più gli abbonamenti su digitale, hanno in programma di ridurre ulteriormente il numero di articoli che possono essere letti gratuitamente sui propri siti (oggi in media non più di una decina il mese, ma solo qualche anno fa erano circa il doppio).

Lo stesso Reuters Institute avverte però che «L’aumento dei paywall sta allontanando sempre più persone dalle notizie di qualità spingendole ad ignorarle del tutto, utilizzando per questo anche software “blocca-paywall”».

Su alcuni browser come Chrome e Firefox sono infatti già presenti applicazioni che automaticamente eliminano i link che indirizzano verso contenuti all’interno di paywall per chi vuole evitare di trovarsi continuamente di fronte una richiesta di sottoscrivere un abbonamento.

Non è un problema da poco, perché si inserisce in una realtà già caratterizzata da forti disuguaglianze.

Il deserto dell’informazione locale

Negli Stati Uniti, ad esempio, la chiusura di un numero impressionante di giornali locali ha creato una frattura gravissima tra aree metropolitane e aree rurali.

Uno studio dell’Università del North Carolina ha rilevato che negli ultimi quindici anni circa 1.800 testate locali americane hanno cessato le pubblicazioni.

Con la conseguenza diretta che oltre 1.300 comunità che nel 2004 avevano i loro giornali, oggi non hanno più una copertura giornalistica dedicata.

Ma queste fratture sono molto marcate anche tra centro e periferie, tra i giovani e le altre fasce di età.

(La recente indagine dell’Agcom sull’informazione locale in Italia è qua, ndr)

In Italia il monopolio della tv

In Italia ad esempio, secondo Istat, i lettori abituali di quotidiani (che li leggono almeno una volta a settimana) sono il 51,6% nel Nord-Est ma il 29,7% nel Sud, una differenza marcata che scompare nel dato di chi guarda abitualmente la televisione, rispettivamente del 91,7% e del 92,8%.

In questo contesto, con il calo della circolazione delle copie combinato all’ascesa dei contenuti premium sui siti dei giornali, il «news divide» sembra destinato a diventare sempre più marcato spingendo, cosa da non sottovalutare, ancora più persone verso la televisione tradizionale dove i grandi broadcaster dominano la scena, concentrando su pochi, pochissimi soggetti la maggior parte del pubblico (in Italia ad esempio secondo stime dell’osservatorio europeo Mavise la concentrazione dell’audience sui due principali broadcaster supera il 70%, la più alta in Europa).

La «subscription-economy» finisce per esasperare la competizione di «uno contro tutti» ed esalta la cultura del «chi vince si prende tutto» (risulta ancora più chiaro se guardiamo le grandi piattaforme tecnologiche come Netflix ). Con queste caratteristiche presenta rischi evidenti per il pluralismo dell’informazione.

L’importanza dei patroni

Di fronte al proliferare dei paywall però c’è chi, come il Guardian, ha scelto un’altra strada per far crescere in maniera significativa i ricavi provenienti direttamente dai lettori. Pur lasciando libero accesso a tutti gli articoli del proprio sito, nel 2016 ha lanciato una campagna di sottoscrizione a sostegno del suo giornalismo d’inchiesta.

Nel complesso i sostenitori del giornale – tra donazioni volontarie (mensili, annuali o una tantum), patrocinatori (con donazioni che partono da 1.200 sterline l’anno) e abbonati all’edizione cartacea e digitale del giornale – hanno raggiunto nei tre anni dal lancio del programma il milione di lettori da 180 paesi diversi facendo superare lo scorso anno, per la prima volta, i ricavi dai lettori su quelli da pubblicità.

E adesso il Guardian punta al pareggio di bilancio entro quest’anno dopo anni di conti in rosso.

L’idea di sostenere economicamente una testata perché si ritiene importante renderla accessibile a tutti ha radici lontane ed esiste già da ben prima dell’avvento del digitale.

Oggi sta funzionando al Guardian ma la sua efficacia per altri editori è tutta da verificare. Diverse testate stanno cercando di trovare qualche soluzione per abbassare la soglia di accesso ai propri abbonamenti, il New York Times ha messo a disposizione di tre milioni di studenti abbonamenti gratuiti al proprio sito grazie a una raccolta fondi che ha coinvolto 30mila lettori, ma queste restano comunque iniziative singole e isolate.

Il mercato da solo non basta

Non è ovviamente questione di essere favorevoli o contrari ai paywall e alle politiche editoriali che puntano con decisione a convincere tutti i lettori a pagare un abbonamento annuale, ma la «subscription-economy» declinata sui giornali lascia comunque da sciogliere un nodo importante: i buoni e virtuosi modelli di business editoriale come questo non necessariamente si fanno carico di aspetti fondamentali per la qualità del dibattito civico di una comunità come un’informazione aperta, plurale e a tutti accessibile (accessibile, non necessariamente gratuita).

Rimane così aperta una domanda: se non lo fa il mercato, allora, chi dovrebbe farsene carico?

2,3 milioni di copie al giorno L’elaborazione di DataMediaHub sull’intero aggregato delle testate quotidiane censite, anno per anno, da Ads. Dal 2008 al 2018 le copie mediamente vendute (sia su carta che in digitale) si sono dimezzate: da quasi 5 milioni a 2,3.Il crollo è leggermente meno devastante negli ultimi anni, con il calo minore osservato proprio tra 2017 e 2018.

Lelio Simi, giornalista, si occupa di innovazione, media e strategie editoriali. È tra i fondatori del gruppo di lavoro DataMediaHub