James Mattis voleva l’approvazione del Congresso al raid contro la Siria lanciato ‎sabato scorso dagli Stati Uniti. La richiesta del Segretario alla difesa però fu ‎respinta da Donald Trump, intenzionato a non attendere i tempi della politica e a ‎colpire Damasco subito in risposta al mai accertato attacco con armi chimiche su ‎Douma del 7 aprile, attribuito dall’opposizione siriana all’aviazione governativa. ‎

Mattis comunque avrebbe strappato al presidente il sì a lanci di missili limitati a tre ‎obiettivi, per evitare di colpire le postazioni russe in Siria.

A scriverlo è stato il New ‎York Times rivelando il retroscena dell’attacco e le differenze in seno ‎all’Amministrazione sulla politica Usa nei confronti della crisi siriana. Il Pentagono ‎ha negato tutto bollando la rivelazione del Nyt come falsa. ‎

‎La questione è di scarso rilievo. Ciò che conta è che Washington, assieme a ‎Londra e Parigi, ha aggredito la Siria senza avere attendere la foglia di fico di una ‎risoluzione Onu e senza permettere lo svolgimento di indagini per accettare cosa sia ‎accaduto il 7 aprile.

L’incertezza intanto si fa sempre più fitta mentre Trump, ‎Emmanuel Macron e Theresa May nei giorni scorsi parlavano di uso certo di armi ‎chimiche.

Come il giornalista britannico Robert Fisk che ha riferito di non aver ‎trovato a Douma conferme di un attacco con gas velenosi a danno della popolazione ‎civile, anche un reporter americano, Pearson Sharp, di One America News – ‎network tv conservatore che ha appoggiato la campagna elettorale di Trump – ha ‎espresso forti dubbi.

Sharp ha detto di aver intervistato dieci abitanti e nessuno di ‎essi ha avvalorato la tesi di un lancio di ordigni con gas. Sharp ha aggiunto di essere ‎entrato nel quartier generale di Jaysh al Islam, il gruppo jihadista finanziato ‎dall’Arabia saudita che fino a qualche giorno fa aveva il controllo di Douma, ‎trovandoci migliaia di proiettili di mortaio e ingenti quantitativi di armi.‎

Tra lo scetticismo di Trump e dei suoi alleati, gli esperti dell’Organizzazione per ‎la proibizione delle armi chimiche (Opac) si dicono pronti a fare luce sull’accaduto. ‎

Ma non hanno cominciato il loro lavoro (pdf qui). Giunti a Damasco il 14 aprile, aspettano ‎ancora il via libera dei responsabili della sicurezza delle Nazioni Unite per avviare ‎le indagini.

Ieri il direttore dell’Opac, Ahmet Uzumcum, è stato perentorio quando ‎ha affermato che la missione diventerà operativa solo se le sarà consentito l’accesso ‎illimitato a tutte le aree di indagine.

Peraltro ieri a Douma si sono sentiti degli spari ‎e questo ha frenato ulteriormente il via libera degli uomini della sicurezza dell’Onu.

‎Ad alcuni chilometri di distanza da Douma, le forze armate siriane intanto hanno ‎intensificato la pressione attorno al campo profughi palestinese di Yarmuk – la sua ‎popolazione in gran parte è fuggita negli anni passati – e ai vicini sobborghi di Hajar ‎al Aswad e Babila, fuori dal controllo governativo da sei anni e dal 2015 nelle mani ‎dei miliziani dello Stato islamico che qualche settimana fa sono entrati anche a ‎Qadam, sempre a ridosso di Damasco, abbandonato dai rivali qaedisti di an Nusra.

‎Sconfitti intorno alla capitale, i jihadisti hanno provato ieri a cogliere di sorpresa ‎l’esercito siriano a Quba al Kurdi, a sud di Hama, un’area strategica in ci sono ‎stanziate le forze governative e i miliziani.

I combattimenti in quella zona ora sono ‎intensi.

Con il ritorno di una calma relativa in diverse aree del Paese, si accentua il ‎rientro a casa dei siriani fuggiti in Giordania, Libano e Turchia.

462 rifugiati da anni ‎ospitati nella località meridionale libanese di Shabaa, ieri a bordo di autobus hanno ‎attraversato la frontiera e si sono diretti verso Beit Jinn, sulle pendici orientali delle ‎Alture del Golan occupate da Israele. ‎