Vorrei iniziare da un singolare paradosso, a proposito della discussione sul “piccolo mondo antico” della sinistra aperta dal manifesto: molte forze che attribuiscono la massima importanza alle pratiche del conflitto sociale, ai movimenti di lotta, alla creazione e allo sviluppo di forme di auto-organizzazione, solidaristiche e mutualistiche, ebbene, molto spesso queste stesse forze sembrano preda di una sorta di sindrome elettoralistica, prigioniere di un appiattimento politicistico. La domanda da porsi è: ma le migliori esperienze di vitalità politica, civica e sociale, che pure ci sono nel nostro paese, ci guadagnano poi qualcosa dall’essere “costrette” dentro la camicia di forza di una scheda elettorale o di un simbolo più o meno improvvisato? O addirittura, stando poi ai modesti risultati spesso ottenuti, non si rivela la corsa elettorale una scelta persino controproducente, che provoca contraccolpi di delusione e frustrazione?

Il presupposto di questa vorticosa ricerca di un “posto al sole” su una scheda elettorale è facile da individuare: in fondo, si pensa che per esistere politicamente bisogna essere “visibili” e che, soprattutto, la propria identità (o meglio, “micro-identità”) non abbia altro modo di farsi valere, se non appunto quello di apparire e misurarsi in una gara elettorale, “rispecchiandosi” in un simbolo presente sulla scheda, con una sorta di deriva narcisistica.

Tutto ciò si lega alla questione annosa del “voto utile”. Puntualmente, alla vigilia delle elezioni c’è sempre qualcuno che con tono indignato protesta contro “il ricatto del voto utile”. Ma scusate, non vi sembra un puro alibi? Conoscete voi un elettore a cui non importi l’effetto che può produrre il proprio voto? O che non consideri la possibile efficacia (o inefficacia) di questo suo voto? Va anche detto – senza troppi giri di parole – che gli elettori-abitatori del nostro “piccolo mondo antico”, quelli a cui interessa solo l’espressione della propria identità, questi elettori sono oramai una infima minoranza, e lo saranno sempre più.

Nel lontano 1977 Gianfranco Pasquino e Arturo Parisi inventarono una fortunata classificazione delle tipologie di voto (voto di appartenenza, di scambio, di opinione), ampiamente utilizzata per molti decenni. Allora aveva senso parlare del voto anche come espressione di un’appartenenza ideologica. Era un fatto reale, di massa: si “era” e ci si “sentiva” comunisti, socialisti, democristiani, ecc.. Con il passare dei decenni, le logiche di identificazione si sono fatte sempre più labili, fino a sparire del tutto, quanto meno come canale primario di orientamento della scelta di voto.

A questo punto, è evidente che anche l’elettore di sinistra più radicale nelle sue convinzioni tenderà sempre più a non affidare al momento del “voto” l’espressione esclusiva della propria identità. Si vota piuttosto per ragioni molto più pragmatiche: ad esempio, certo, anche per evitare il “peggio”: e vi pare poco? Tra l’altro è chiaro che la frammentazione dell’offerta a sinistra finisce solo per favorire il voto al Pd: almeno si sa cosa ci si può aspettare.

Come se ne esce, in vista delle elezioni politiche del 2023? Al di là dello sconfortante florilegio di falci e martelli, deve far riflettere anche l’esito mediocre di tante liste, pur nate dalle migliori intenzioni, che sperano di esprimere un fermento civico, che viene percepito ma che non riesce a darsi una vera traduzione politica. Ci sono, è vero, molte esperienze positive di liste di sinistra, o civiche-ecologiste, che hanno ottenuto dei buoni risultati: ma questo accade sopratutto alle elezioni comunali (e in qualche caso, regionali), quando la logica delle coalizioni permette a queste esperienze di stare dentro comunque una possibile azione di governo, dentro il famigerato “campo” del centrosinistra. Pura subalternità? O piuttosto la voglia di stare dentro una partita e, quando se ne hanno la capacità e le forze, di farle pesare (il che, ovviamente, non sempre accade)?

Se ne dovrà riparlare, qualora cambiasse la legge elettorale; ma, nel caso restasse quella attuale, è bene essere molto netti: al di fuori di un’ampia coalizione democratica, non c’è spazio o speranza di successo, neanche per l’ennesima lista-cartello della sinistra che, ancora una volta, si cercherà metter su alla viglia delle elezioni. E a coloro che proprio pensano di non potere avere proprio nulla a che fare con il Pd, si può solo rispondere in modo disincantato: evitiamo di attribuire a queste coalizioni un valore identitario, che non hanno e non possono avere.

Ma allora a che servono? Possono servire a molte cose, ma ad una in particolare: marcare una presenza istituzionale che può aiutare lo sviluppo dei movimenti e di nuove esperienze “dal basso”. A questo proposito, una piccola notazione finale. Nel suo intervento, Giuliano Granato, di Potere al Popolo, rivendica con orgoglio tutto il lavoro svolto da PaP, citando anche un’iniziativa legislativa condotta insieme al “nostro senatore Mantero”. Pap, alle politiche del 2018, con l’1,13% dei voti, non elesse alcun parlamentare: come si può parlare allora di un “nostro” senatore? Semplicemente, perché Matteo Mantero, eletto con il M5S, ha poi aderito a Pap. Nulla di inconsueto, ovviamente: però questa dinamica può suggerire qualcosa, ossia la distinzione tra una rappresentanza istituzionale che passi solo dal voto e la costruzione di relazioni di rappresentanza politica che possono anche prescindere dalla competizione elettorale.

Non sarebbe, ad esempio, possibile concepire in modo pragmatico quelli che potremmo chiamare “patti di rappresentanza”, cioè forme di accordo tra mondi sociali, associazioni, o anche piccole formazioni politiche, da un lato, e le formazioni politiche più consistenti, che sono in grado di eleggere alcuni loro esponenti (sicuramente il Pd, il M5S, ma anche una lista-cartello di sinistra in grado di prendere almeno il 3%), con l’obiettivo di costruire, nella reciproca autonomia, relazioni stabili di rappresentanza politica con i propri mondi sociali si riferimento? Non si eviterebbe da un lato la dispersione di voti e dall’altro l’afasia politica di esperienze che meritano una sponda e un riconoscimento istituzionale?