Giuseppe Provenzano, un recente studio Ipsos indica che il Pd viene votato dai pensionati e non dai giovani, che tra gli operai solo l’8% vi sceglie e al sud il 14%. Siete il partito di chi vive nelle grandi città e sta abbastanza bene. È un dato strutturale o reversibile?

Quello studio ci dice che abbiamo fatto bene ad accogliere la vittoria alle comunali senza trionfalismi. Cercando di evitare attentamente illusioni ottiche su un successo automatico anche alle politiche. La mappa del voto è chiara: la sofferenza sociale alle comunali si è consegnata all’astensione. Ci sono stati segnali importanti in controtendenza, ma continuiamo a rappresentare soprattutto il pezzo di società che ha fiducia nel futuro, che si sente sicuro. Dobbiamo strappare alla destra la bandiera della protezione, dandole la connotazione “sociale”, che è propria della sinistra e che è l’opposto dello spirito regressivo e reazionario di questa destra.

Perché si è arrivati a questa situazione?

Una lettura della società basata su conflitti e diseguaglianze è stata sostituita da altro: nel caso della prima Lega da un conflitto territoriale che mescolava ceti e interessi diversi.

E nel caso del Pd?

Il renzismo, con il jobs act e la carica ideologica che lo accompagnato persino al di là del merito, ha segnato una rottura col mondo del lavoro, che è la radice vitale della sinistra. Ma c’era un vizio d’origine del nostro partito, nato sul mito infondato della fine delle classi sociali. Il primo elemento di diseguaglianza è il mancato riconoscimento. Avevamo smesso persino di usare la parole “operai”. Se tu non riconosci un gruppo sociale da oltre 8 milioni di persone non puoi certo pretendere di rappresentarlo. Ora, con Zingaretti e poi con Letta stiamo faticosamente ricostruendo questo rapporto.

Come?

Tornando fisicamente dove ci sono i conflitti. Ci sono stati anni in cui il Pd entrava nelle fabbriche solo a braccetto con gli amministratori delegati, ora siamo stati in prima linea in vertenza come la GKN. Per questo non accantoniamo la battaglia sulle norme contro le delocalizzazioni. Il lavoro è la nostra ossessione nell’azione del governo. La Lega al dunque non sta con i lavoratori, penso al blocco dei licenziamenti. Noi abbiamo ottenuto la clausola del Pnrr per vincolare gli incentivi alle assunzioni di giovani e donne, le nuove regole su subappalti e sicurezza sul lavoro, la riforma per estendere gli ammortizzatori sociali a chi non era garantito, come i lavoratori della piccola impresa, i precari, gli autonomi.

Le pare sufficiente?

Certo che no. Il nostro compito è un re-insediamento politico, culturale e sociale per diventare il partito del lavoro. Parlo del lavoro in tutte le sue forme, anche il piccolo autonomo schiacciato dalla grande distribuzione o dalle grandi piattaforme esprime un bisogno sociale. Il lavoro è la chiave per unire le ansie dei ceti medi impoveriti del Nord e la fame di buona occupazione e servizi al Sud e nelle aree interne.

Nel Pd saranno d’accordo?

La consapevolezza che la lotta alle diseguaglianze è indispensabile per lo sviluppo è molto diffusa nel Pd di oggi. E lo dimostriamo anche quando chiediamo che gli 8 miliardi della manovra vadano tutti sull’aumento dei salari medio-bassi. Dentro le agorà discuteremo alcune proposte: dal salario minimo legato al rafforzamento della contrattazione, ai diritti al tempo dell’algoritmo, alla creazione di green jobs sul modello di Biden, a una nuova politica industriale, alla partecipazione dei lavoratori alla scelte delle imprese.

Tutti temi impervi sotto il governo Draghi.

E infatti stiamo parlando del progetto con cui ci presenteremo alle politiche. Come ha fatto la Spd. E lo faremo in un rapporto con i sindacati, con le forze sociali: la stagione della disintermediazione è chiusa.

Letta parla spesso dei giovani. Sembra ignorare la “generazione perduta”, tra i 35 i 50 anni: spesso laureati, che hanno vissuto solo di precariato. In questa fascia di età siete al 13%.

La loro condizione è figlia anche degli errori del centrosinistra dagli anni 90. A queste persone abbiamo iniziato a dare qualche risposta durante la pandemia. Ma attenzione: la contrapposizione non può essere tra un operaio o un pensionato con 1300 euro al mese e il figlio laureato con partita Iva ma precario. La contrapposizione è tra chi vive del proprio lavoro e chi di rendite milionarie.

Si parla spesso di aggredire la rendita, poi non si fa nulla.

La proposta di Letta sulle successioni, che resta un nostro cardine, va in questa direzione: spostare il peso delle tasse dal lavoro alla rendita.

Voi puntate molto sulle agorà. Che appaiono come un esercizio intellettuale, una cosa da elite che hanno il tempo per andare sul sito a discutere. Non certo per dare voce ai più deboli.

La nostra idea è l’opposto: coinvolgere i soggetti che sono protagonisti delle proposte: nei prossimi giorni sarò a Terni per un’agorà sulla siderurgia con i lavoratori.

La sinistra ha bisogno di un nuovo contenitore politico che superi quelli attuali?

In passato ho visto partiti cambiare nome, ma tenere le stesse politiche e spesso gli stessi gruppi dirigenti, soprattutto a livello locale. Il tema per noi è proseguire nel rinnovamento delle classi dirigenti sulla base di una nuova proposta politica: uscire dalla crisi con più diritti e giustizia sociale.

Vorrebbe un Pd più largo?

Le ragioni della rottura con Roberto Speranza mi sembrano esaurite. Vedrei con favore l’impegno di personalità come Elly Schlein nella costruzione di un nuovo Pd. Ma il punto vero è aprirci a quella parte di società che fa cose di sinistra, gli innovatori sociali. Prima ci guardavano con ostilità, adesso non più.