E adesso? Facile dire che bisogna «seguire la scia della Sardegna», come fa Giuseppe Conte, visto che sull’isola si era vinto per un soffio, ma è dalla sconfitta in Abruzzo che bisogna partire. Pesante, perché colpisce una coalizione larga come quasi mai e perché in qualche modo le opposizioni avevano finito col credere che il vento per il governo stesse davvero cambiando. Invece la prima lezione che arriva dalla domenica elettorale è che le destre sono ancora forti e salde, a dispetto delle loro incompetenze e dei disastri alla guida del paese. In Abruzzo crescono, anche se il dato prevalente è il riequilibrio dei pesi interni, per una volta a favore di Forza Italia e ancora una volta a danno della Lega. Il vento non sta cambiando affatto, nemmeno in Europa come dimostra il Portogallo. L’ultimo paese dei 27 al voto politico generale prima delle europee di giugno ci consegna un altro cattivo presagio.

La sconfitta di D’Amico conferma che la coalizione larga è una condizione necessaria per battere le destre ma niente affatto sufficiente. Tenere insieme Pd e 5 Stelle, ma anche la sinistra di Avs e, in questo caso, i centristi di Calenda e Renzi è già di per sé operazione complicata assai, eppure è ancora solo il primo passo. Perché l’alleanza funzioni elettoralmente deve superare altri due scogli e in Abruzzo non c’è riuscita.

Deve convincere i cittadini, che hanno ormai poca fiducia nella politica, di rappresentare un’alternativa reale alle destre, credibile malgrado le prove del passato del centrosinistra e capace di incidere sui loro problemi concreti. Per dirla in sintesi, il principale problema del “campo largo” è che in una regione che fa i conti con pessimi servizi essenziali, a cominciare dalla sanità, l’astensionismo è cresciuto pur in presenza di una coalizione sulla carta competitiva con chi governa da cinque anni.

Inoltre, perché la somma tra Pd e 5 Stelle non si risolva in un pessimo affare (i due partiti nella regione a settembre 2022 avevano insieme 220mila voti, ne hanno adesso 158mila), occorre che il partito di Conte non perda per strada la maggioranza dei suoi elettori quando si presenta coalizzato. Cosa che invece è accaduta domenica, a fronte di buoni risultati sia del Pd che di Avs, entrambi in crescita rispetto alle politiche e alle regionali. Naturalmente è più facile che questa emorragia di elettori 5 S si verifichi ancora se i rapporti tra i due partiti principali del “campo” non evolvono dallo schema della competizione tra due offerte politiche che incidono sullo stesso elettorato, non disponibili a contaminarsi reciprocamente ma in perenne sfida per la leadership dell’alleanza.

Da questo punto di vista, dopo il risultato di domenica la linea più sotto pressione è quella di Conte ed è una notizia importante che il capo dei 5 Stelle abbia in qualche modo confermato l’intenzione di proseguire il cammino unitario. Anche se per farlo è dovuto ricorrere al salto logico all’indietro proponendosi di ripartire dalla Sardegna. Dove, non è un caso, la candidata presidente l’aveva scelta il Movimento, il che suona come avvertimento al Pd per le trattative ancora aperte in Piemonte e persino – a dieci giorni dalla presentazione delle liste – in Basilicata. Eravamo stati buoni e facili profeti a scriverlo dopo la vittoria di Todde: la rondine della Sardegna non era il segnale di una scontata primavera per le opposizioni.