La pandemia riporta l’attenzione sul nostro servizio sanitario e sui cambiamenti che lo hanno segnato. Ne ha parlato Andrea Capocci su queste pagine il 1° agosto, in una recensione dell’ultimo libro, dai contenuti non sempre condivisibili, di Ivan Cavicchi. È utile definire i punti fermi della storia del servizio sanitario nazionale, introdotto dalla legge 833 del 1978, ma già ridimensionato nelle sue istanze universalistiche, sociali e di prevenzione, a partire dagli anni Ottanta, quando la responsabilità politica per la salute venne sostituita da una svolta manageriale e si affermò un paradigma selettivo della salute.

È il riflesso italiano delle politiche neoliberali che introducono a livello internazionale un paradigma incentrato sulla privatizzazione, sulla promozione di sistemi assicurativi sostitutivi, sull’introduzione nelle strutture pubbliche di forme di partecipazione alla spesa da parte degli utenti. La svolta arrivò in Italia con il decreto legislativo n. 502 del dicembre 1992, adottato dal governo Amato con Francesco De Lorenzo ministro della Sanità, esponente del Partito liberale, il più ostile all’istituzione del servizio sanitario nazionale e travolto poco dopo dagli scandali per corruzione e tangenti. Il decreto introdusse elementi di pesante rottura rispetto ai principi ispiratori del Ssn, in tre direzioni: aziendalizzazione, regionalizzazione, privatizzazione.

L’aziendalizzazione trasformò le Unità sanitarie locali (Usl) da organizzazioni gestite dai Comuni ad aziende pubbliche controllate dalle Regioni (Asl) e consentì di scorporare gli ospedali dalla gestione diretta delle Asl, costituendoli in Aziende ospedaliere autonome, permettendo così la separazione fra ‘compratori’ e ‘produttori’ di prestazioni sanitarie. A sua volta, la nuova regionalizzazione del sistema, lontana dall’auspicato decentramento democratico e priva di una efficace guida politica coerente con le linee della riforma del ‘78, ebbe l’effetto di irrigidire il vincolo di bilancio delle Regioni rispetto alla spesa sanitaria, in quanto trasferì loro la responsabilità di far fronte con risorse proprie a eventuali eccessi di spesa oltre ai trasferimenti statali, in cambio di più ampie competenze sull’organizzazione e sul funzionamento dei servizi.

La privatizzazione, di cui il nefasto articolo 9 del decreto era manifestazione, attribuì alle Regioni la possibilità di disporre l’uscita volontaria di parte dei cittadini dal Ssn verso mutue professionali, aziendali, volontarie o assicurazioni private con il compito di provvedere all’erogazione, in tutto o in parte, dei livelli uniformi di assistenza. Una vera e propria controriforma. Gli scandali travolsero De Lorenzo e il successivo decreto correttivo Ciampi-Garavaglia (n. 517) del 1993 pose un argine al modello di sanità privatizzata prevista dall’articolo 9, che tuttavia restò una persistente tentazione nella politica sanitaria del paese.

Alla fine degli anni Novanta fu la riforma introdotta da Rosy Bindi nell’esecutivo di Prodi a mettere ordine in una normativa sempre più caotica che comprometteva l’unitarietà del servizio sanitario nazionale in 21 servizi sanitari regionali. Il decreto legislativo n. 229 del giugno 1999 si ricollegava ai principi della legge istitutiva del Ssn del 1978, recuperando il ruolo dei Comuni, contrastando la ‘privatizzazione passiva’ del servizio sanitario e un “federalismo da abbandono” delle relazioni tra Stato e Regioni. Il decreto riaffermò la coerenza tra il carattere nazionale del servizio sanitario e la sua regionalizzazione, identificando nei livelli essenziali e uniformi di assistenza (Lea) assicurati dal Ssn il collante del nuovo assetto.

La riforma Bindi, sottoposta sin da subito a critiche di varia natura, segnò una discontinuità rispetto alla controriforma del 1992 e si inserì in un contesto di forte scontro tra sostenitori della privatizzazione e difensori del servizio sanitario. È uno scontro che ha segnato gli ultimi decenni, in un contesto di contenimento della spesa sanitaria pubblica, di divaricazione delle traiettorie regionali, di abbandono della prevenzione e di grave aumento delle disuguaglianze di salute.

Su questo sfondo, la pandemia ha reso evidenti i danni provocati da trent’anni di indebolimento della prevenzione, della programmazione e dei principi di universalismo ed equità, dall’affermazione di logiche di mercato. Ripercorrere queste vicende aiuta a chiarire su un capitolo fondamentale della storia, dinnanzi a troppi vuoti di memoria. E serve a rimettere al centro il diritto alla salute, fisica e psichica, individuale e collettiva.