«Ero venuto con le migliori intenzioni, me ne vado con le peggiori. Ho sentito solo parole di accuse di illiberalità e fascismo velato al governo», e sono «accuse gravi, inaccettabili». A mezza mattina, nella solenne sala della Lupa della Camera, il sottosegretario all’editoria Vito Crimi è furibondo e accenna il gesto clamoroso di andare via. Fin lì è stato in prima fila ad ascoltare il primo panel di un ponderoso convegno organizzato dall’Associazione stampa parlamentare per i suoi cento anni. I tre storici convocati per una riflessione «sul giornalismo politico-parlamentare e sull’evoluzione dei rapporti con le istituzioni e le forze politiche» – Lucio Villari, Simona Colarizi, Valerio Castronovo, moderati da un decano dell’ Asp Giorgio Frasca Polara – non gli sono piaciute. Gli storici hanno ricordato il controllo della stampa che era per Mussolini un «obiettivo irrinunciabile» (Colarizi). Il sottosegretario sente un richiamo all’oggi e si arrabbia. «Ha la coda di paglia», commenta Raffaele Lorusso, segretario della Federazione nazionale della stampa.
Introducendo i lavori, poi, la vicepresidente dell’Asp Angela Bianchi ha messo le carte in tavola: «La stampa ha sempre dato fastidio, ma se un tempo eravamo considerati un male necessario oggi rischiamo di essere un male di cui fare a meno». I politici preferiscono i social e dribblano le domande, è la disintermediazione bellezza. «Abbiamo dovuto protestare per l’ormai abituale convocazione fuori da palazzo Chigi – in piazza – semplicemente per raccogliere dichiarazioni di membri del governo», conclude. I giornalisti trasformati in megafono e poi presi a male parole («infimi sciacalli» per il vicepremier Di Maio, «puttane pennivendole» per l’ex deputato M5S Di Battista).

Così la proposta made in 5 stelle di tagli al fondo per il pluralismo, già nella manovra, sembra una ritorsione . Sfumata alla camera, potrebbe ripresentarsi al senato. Crimi la difende e rilancia la sua proposta di riforma. Quando parlerà, dopo aver deciso di restare al convegno, spiegherà che non c’è nessun attacco alla stampa, bisogna distinguere fra «parole e interventi» («Ma quando le parole violente vengono usate da chi ha una forza politica preponderante nel Paese, può avere un peso anche maggiore degli interventi di un singolo parlamentare», replicherà Marco Di Fonzo, presidente dell’Asp). I giornali fanno politica, e questo non piace a Crimi. Per lui «il ruolo della stampa non è combattere la disintermediazione». Quanto ai contributi per l’editoria «non c’entrano nulla con il principio della difesa del pluralismo nell’informazione».
Affermazione che andrebbe quantomeno discussa: il M5S ha scatenato una battaglia contro gli «editori non puri», cioè quelli forti che hanno altri interessi oltre ai giornali, ma poi annuncia la mannaia sui deboli, i giornali più piccoli, in cooperativa, le testate locali. Crimi se la prende con Libero, per esempio, «da solo prende 5 milioni di contributi». Ma sostenuto dallo stesso fondo è anche Avvenire, il giornale della Cei: sul quale proprio ieri campeggiava un’intervista al presidente Conte. (Anche il manifesto prende un contributo per la stampa in cooperativa).

A smentire Crimi su tutti i fronti bastano però i messaggi delle più alte cariche dello stato al convegno. La presidente del senato Casellati parla di «indispensabile mediazione giornalistica». Quanto al pluralismo dell’informazione, per il presidente Mattarella « è un valore fondamentale per la democrazia, che va difeso e concretamente attuato e sostenuto». Anche il presidente emerito Napolitano parla di «tutela della libertà e dell’indipendenza e il pluralismo dell’informazione anche con appositi stanziamenti». E persino il presidente della Camera Roberto Fico, presente, sembra pensarla diversamente dal sottosegretario quando sottolinea che «comunicazione e informazione devono restare distinte. Ognuna con una sua etica, ma sempre e comunque distinte. Troppo spesso invece vengono usate come sinonimi». Detto da un esponente del partito della piattaforma Roussea suona come l’ennesima sottolineatura di una differenza in seno al movimento e, appunto, agli ultras della disintermediazione, tanto più che il ragionamento viene concluso con una richiesta di responsabilità nell’uso della rete. «E la responsabilità è proprio l’elemento caratterizzante del giornalismo».

Certo, un elemento che poi va praticato, ricordano i direttori impegnati in una tavola rotonda appunto su cosa resta del giornalismo ai tempi delle dirette facebook. Resta «il mestiere» di saper resistere alle pressioni (Lucia Annunziata, Huffington post), la cara vecchia «schiena dritta» (Enrico Mentana, La7), «la difesa della centralità del parlamento» (Maurizio Molinari, la Stampa), «la capacità di non cedere al mainstream» (Gennaro Sangiuliano, Tg2) e quello che fa la differenza dalla ripetizione della propaganda nel trattamento di una notizia: «cultura, conoscenza, preparazione» (Luigi Contu, Ansa). Qui siamo al punto: sacrosanto pretendere di fare domande, obbligatorio però farsene alcune, giornalisti ed editori. E questa non è un’altra storia, è la stessa.