«La prima Repubblica tramonta con il decennio “rosso” 1968-1978 – sostiene Toni Negri, oggi uno dei filosofi italiani più noti a livello internazionale – ma non è semplicemente una questione di date. La crisi del patto costituente coincide con la fine del centro-sinistra e della dialettica riformista che regredisce a solidarietà nazionale, complice il Pci, molto prima del congresso della Bolognina del 1991. La sinistra istituzionale e sindacale in Italia entra in crisi perché non riesce a interpretare quanto avviene nelle classi lavoratrici, nella classe operaia e nella gioventù che si era costruita politicamente dal ’68 in poi. Il simbolo di tutto questo è la cacciata di Lama dalla Sapienza nel 1977, ma il processo è molto più profondo. Si veda ad esempio la lenta trasformazione dei consigli di fabbrica in burocrazia sindacale. Il passaggio dal fordismo al post-fordismo, dal keynesismo al neoliberismo, dal moderno al post-moderno non è stato minimamente colto dalle forze socialiste. E, se lo fu, avvenne in maniera superficiale e corrotta con il Psi di Craxi o in una forma edonistica. La fine della capacità riformista della sinistra sono i carri armati nella Bologna di Zangheri dopo l’uccisione di Francesco Lorusso l’11 marzo 77. La responsabilità non è solo di Cossiga, ma del Pci che non poteva sopportare la manifestazione di quel movimento proprio nella città della sua amministrazione modello».

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Toni Negri

I movimenti che sono stati ispirati da Franco Basaglia e alle sue lotte, quelli femministi, i referendum e il divorzio. Il 77 arriva al culmine di queste mobilitazioni e segna una cesura. Qual è stato il rapporto?

In questa dimensione sociale complessiva, il 77 ha enfatizzato una nuova soggettivazione basata su un regime dei desideri difficilmente compatibile con lo sviluppo capitalistico. Direi di più: questo era l’esito di una rivoluzione antropologica basata su bisogni e desideri prodotti dalla rinascita del Dopoguerra che si scontra con la crisi. Lo stesso avviene oggi in America Latina dove la rivolta si accompagna a grandi periodi di sviluppo, mentre le nuove classi si trovano in contraddizione con le vecchie forme del comando.

Perché il Pci del «compromesso storico», sostenitore proprio nel 1977 dell’austerità, comprese poco o nulla di quella stagione?

L’ideologia del Pci non era adeguata a comprendere il passaggio antropologico in atto. Era una trasformazione della sensibilità, si affermava un nuovo pathos dell’epoca. Con la cacciata di Lama l’ideologia socialista è stata denunciata come reazionaria. E non credo che fosse semplicemente perché il Pci si reinventava un partito della nazione con la Dc, in una chiave politica che oggi si chiama «estremismo di centro». Quella rivolta politica andava più a fondo perché attaccava la centralità del lavoro nella società e reagiva a fenomeni oggi di grande attualità: precarizzazione delle generazioni più giovani, strana flessibilità che si cominciava ad avere in un mondo caratterizzato dall’estrema fissità del regime salariale del lavoro.

Il 77 è stato la fine degli anni Sessanta o l’inizio di qualcos’altro?

C’è l’anticipazione di una rivolta profondamente nuova contro le determinazioni neoliberali del capitalismo e della sua ideologia mercantilistica che allora stavano arrivando. Il ’77 assomiglia molto al ’68 parigino o tedesco. È una rivolta morale contro i padri e una rivolta conoscitiva e di libertà contro il baronaggio universitario. È la liberazione sessuale contro le chiusure patriarcali e cattoliche tradizionaliste. Sono caratteristiche europee che il ’77 innesta, con estrema intensità, su un terreno politico, giovanile e operaio. Un’altra originalità è avere messo fine all’egemonia di un discorso operaista classico per aprirne un altro sulla lotta di classe e la trasformazione del soggetto sfruttato. Lo sfruttamento non è identificato solo nella fabbrica, ma è percepito nella società e più propriamente nella vita metropolitana.

Il ’77 segna l’emersione, non solo in Italia, ma anche in Europa, da Bologna a Londra, delle radio libere e degli spazi sociali, del punk e della disco music. Qual è il tratto comune di questo nuovo «lavoro culturale»?

La trasformazione dell’elemento fantastico e derisorio in un’insorgenza emotiva e ironica. Quei tempi hanno aspetti dionisiaci molto forti, anche se questo tratto trionfa soprattutto tra Bologna e Roma, meno a Milano e nel Veneto. Sono aspetti che emergono già dal ’75 quando la crisi della egemonia operaia sulla lotte diventa evidente, mentre lo sviluppo dei centri del proletariato giovanile è maturo e avanzato.

Cosa, di questa storia, ritorna nei movimenti oggi?

La grande conversione dalla centralità della produzione a quella della riproduzione. Non emerge tanto nel ’77 degli indiani metropolitani, quanto nella riflessione sul lavoro informale, diffuso, sulle nuove lotte sociali che toccano la distribuzione territoriale della produzione. La grande fabbrica delocalizza le produzioni e il sociale appare immediatamente come produttivo. A Nord questa cosa colpisce enormemente. Si aprono piccoli laboratori e micro-imprese negli scantinati o nelle campagne dove vengono trasportati torni e frese. Il carattere operaio delle lotte si stempera nelle brume delle campagne del Nord, le lotte si socializzano sui terreni che prima il capitale sfruttava gratuitamente, dalla scuola, ai trasporti, alle prossimità, ai servizi. Su questo terreno si forma la consapevolezza che lo sfruttamento è sociale, fisico e biopolitico, attraversa la riproduzione della vita.

Qual è stato il limite del 77?

In questo formidabile blocco gioioso e desiderante, nel lento processo di un’autonomia operaia e studentesca, nell’organizzazione di una transizione dalle politiche del lavoro alla società post-salariale si è aperta la porta al reclutamento della lotta armata. Questo è stato il grande limite del ’77. Pur avendo vissuto il futuro, non ci si è resi conto che il futuro è malgrado tutto lontano e bisogna costruirlo.