Forze di polizia e miliziani libici hanno circondato i rifugiati allo scoccare della mezzanotte. Un’ora dopo li hanno arrestati in massa, usando violenza e armi da fuoco. È accaduto tra domenica e lunedì a Tripoli, nel centesimo giorno di protesta dei sopravvissuti ai rastrellamenti di inizio ottobre nel quartiere di Gargarish e alla detenzione nel centro di Al Mabani.

DUE I PRESIDI attaccati simultaneamente: all’ex Community day centre (Cdc) di Unhcr, chiuso definitivamente a fine dicembre, e al quartier generale della stessa organizzazione. Nel primo fino ai giorni scorsi c’erano circa mille manifestanti. Quando hanno visto gli uomini armati bloccare i due accessi della strada sono usciti dalle tende alzando gli striscioni e intonando insieme: «Evacuation, evacuation». Strenuo tentativo di resistenza.

TRA GLI UOMINI ARMATI e i referenti della protesta si è intavolata una trattativa: questi ultimi hanno provato a dire che avrebbero accettato il trasferimento nel campo di prigionia di Ain Zara solo se questo fosse passato sotto la gestione dell’Unhcr. Gli uomini del Dipartimento per la lotta all’immigrazione illegale (Dcim), che dipende dal ministero dell’Interno libico e da fine dicembre è guidato da Mohammed al-Khoja (accusato in passato di violenze e collusioni con i trafficanti), non hanno voluto sentire ragioni.

LA TENSIONE è salita rapidamente: i rifugiati hanno preso a urlare, i libici a sparare e incendiare le tende costruite con materiali di fortuna. Majid Terab, un ragazzo sudanese di 25 anni, è rimasto colpito da un proiettile (non è in pericolo di vita). A parte alcuni rifugiati che sono riusciti a fuggire singolarmente, tutti gli altri sono stati caricati sui bus della polizia e portati ad Ain Zara.

STESSA SORTE per i circa 100 manifestanti che presidiavano il vicino centro di registrazione Unhcr: attaccati con violenza, catturati e trasferiti nella struttura detentiva, alla periferia sud della capitale libica. Tutto è avvenuto in diretta: i profili social dei rifugiati hanno rilanciato foto e video dello sgombero e poi dell’interno del centro di detenzione, strapieno e con una sezione dedicata a donne e bambini.

«CI SIAMO BATTUTI con tutta la disperazione che ci portiamo addosso. Abbiamo usato tutto il coraggio a nostra disposizione per esporci e parlare in prima persona. 100 giorni di lotta per chiedere alla comunità internazionale di trasferirci in un luogo sicuro, perché qui l’Unhcr ha dimostrato di non essere in grado di proteggerci», afferma David, uno dei manifestanti sfuggiti all’arresto. Fino a ieri sera l’Unhcr non aveva commentato pubblicamente l’accaduto. Al manifesto ha espresso «molta preoccupazione per le persone arrestate» rinnovando l’invito alle autorità libiche a «rispettare diritti umani e dignità di richiedenti asilo e rifugiati» e «liberare quelli detenuti arbitrariamente».

I RIFUGIATI hanno puntato il dito anche contro José Sabadell, ambasciatore dell’Unione europea in Libia, che l’8 dicembre su Twitter aveva espresso preoccupazione per la situazione fuori dal Cdc. Non per le vite dei rifugiati, ma solo per lo staff e le attività dell’Unhcr. «Chiediamo alle autorità libiche di garantire sicurezza e proteggere persone e locali» è la frase incriminata. Dopo le violenze e gli arresti di ieri ha un suono ancora più cupo.

SECONDO il Norwegian council for refugees (Nrc) e l’International Rescue Committee’s (Irc) sono almeno 600 le persone arrestate nel rastrellamento. «Il culmine di una situazione disastrosa deterioratasi negli ultimi mesi», ha commentato Dax Roque direttore per la Libia di Ncr. «Quanto accaduto ricorda che la situazione di migranti e rifugiati in Libia è insostenibile e necessita di un nuovo approccio che rispetti i diritti delle persone in movimento», ha dichiarato Thomas Garofalo, omologo per Irc.

LE DUE GRANDI organizzazioni umanitarie hanno rivolto un appello alla comunità internazionale: aumenti immediatamente i reinsediamenti e gli altri canali sicuri e legali per le persone che vogliono lasciare la Libia.