Invertendo la tendenza, ormai consolidata in amministrazioni sia repubblicane che democratiche, a chiudere un occhio sulla fusione verticale tra grosse corporation, che quindi non competono tra loro, il dipartimento di giustizia Usa è intervenuto legalmente per bloccare il merger tra AT&T e Time Warner. Con questo affare da 85.4 miliardi di dollari, il gigante della telefonia (che, dopo la fusione con la compagnia di satelliti Direct TV, nel 2015, è diventato anche il maggior distributore di televisione del paese) sarebbe entrato in possesso di un enorme magazzino di contenuti -che vanno dallo studio cinematografico della Warner Bros., a Burbank, con il suo sterminato archivio, di cui fanno parte i titoli dai DC Comics, gli Harry Potter e quasi l’intera filmografia di Clint Eastwood; a canali Tv come HBO (Game of Thrones, I Soprano..), TBS, TNT e la bestia nera di Donald Trump, CNN.

Il capo dell’antitrust del ministero di Jeff Sessions, Makan Delrahim, ha dichiarato che la fusione in questione avrebbe degli effetti dannosi sui consumatori e indebolirebbe la competizione: «significherebbe bollette mensili molto più alte e un accesso ridotto alle opzioni innovative di cui i consumatori stanno cominciando a godere». «I servizi di distribuzione video della AT&T e della Direct TV sono disponibili su tutto il territorio, come anche i canali tv della Time Warner, quindi il danno si estenderebbe in tutto il paese», ha affermato ancora Delrahim. E, in effetti, la super-corporation che emergerebbe dalla fusione sarebbe di taglia ancora maggiore della Comcast-NBC Universal, che al momento serve circa un terzo di case Usa.

Da parte sua, la AT&T difende la fusione in quanto iniezione di contenuti assolutamente necessaria per fronteggiare il peso sempre crescente sul mercato di colossi della rete come Google e Facebook. Secondo Randall Stephenson, il CEO della compagnia, la causa del governo, intentata presso un tribunale federale del Distretto di Columbia, «va contro ogni logica». Nel manifestare il suo disappunto, l’executive non ha esitato a sollevare l’ipotesi che dietro al no del Doj potrebbe esserci la Casa Bianca. Già durante le elezioni, nel 2016 Trump si era infatti pronunciato contro il merger.

Il suo rapporto con la rete all news non è migliorato dopo l’ingresso a Pennsylvania Avenue e, solo qualche giorno fa, al suo ritorno dal viaggio in Asia, Trump aveva trovato modo di attaccarla nuovamente via Twitter. La possibilità di un intervento diretto del presidente, nella processo di valutazione del merger era stata sollevata anche, in luglio, da una lettera a Jeff Sessions firmata dalla senatrice democratica del Minnesota Amy Klobuchar a cui il dipartimento di giustizia aveva risposto che la Casa bianca non si era pronunciata sull’argomento. Certo, per un’amministrazione che ha fatto della deregulation il suo mantra in quasi tutti i settori di governo, il blocco a questa fusione – che riflette una tendenza alla consolidazione allargata, esemplificata anche dai rumors sulla possibile messa in vendita delle Twentieth Century Fox, prima alla Disney e poi alla Sony – sembra un po’ un’eccezione.

Molto più caratteristica delle politiche di questo governo, infatti, è senza dubbio l’ultima scelta della Federal Communication Commission, l’organo che controlla le telecomunicazioni e il cui chairman, Ajit Pai, ha annunciato ieri la fine delle normative istituite dall’amministrazione Obama per garantire la neutralità della rete. Secondo il nuovo assetto le grosse telefonie saranno libere di bloccare o rallentare l’accesso a certi contenuti della rete, penalizzando per esempio servizi che competono con i loro o di cui non condividono gli interessi. Sempre grazie a Amit Pai, nominato da Trump in sostituzione di Tom Wheeler, la FCC rescinderà una regola che collocava la banda larga tre le utility, come l’elettricità e il telefono, rendendo quindi i providers di internet soggetti alle quelle stesse normative.