Giancarlo Aresta lo riconoscevi subito. Non solo quando lo incontravi, con quel suo profilo inconfondibile e quel volto dolce e forte. Lo riconoscevi anche nei testi scritti o nelle parole dette da altri, quando lui era assente.

Giancarlo aveva un modo di discutere ferreo, indelebile e inaggirabile. Che si fissava nei suoi interlocutori i quali, quasi senza accorgersene, ripetevano i suoi argomenti, quasi sempre i più solidi emersi in un’assemblea o in una riunione. Se non aveva niente da dire, infatti, Giancarlo non parlava. Perciò le sue parole erano sempre importanti per chi voleva ascoltarlo.

Non che mancasse di leggerezza, tutt’altro. Non faceva nessun mistero delle sue passioni, come la moto ad esempio. Alba e la famiglia che hanno costruito insieme. I nipoti. Soprattutto i nipoti.

La politica, come molti della sua generazione, è stata la sua passione e la sua sofferenza.

Giancarlo non accettava la mediocrità, perciò quando la sinistra diventò «poca cosa» (come vedremo sotto), ne soffrì. Ma si trasformò anima e corpo in un nonno meraviglioso e stanarlo sui casi politici del giorno è diventato impossibile, almeno per me.

Ci siamo conosciuti negli anni Duemila al manifesto, dove lui era anima motrice della vecchia cooperativa (e della spa) fin dai primi anni ’90. Giancarlo è stata la persona che, insieme a Valentino e ad altri, ha dedicato tutto se stesso a salvare questo giornale.

Ma dire «salvarlo» è riduttivo.

Giancarlo infatti era un vero comunista, diverso da molti compagni del manifesto, più «movimentisti». Cresciuto nel Pci pugliese, fino alla guida della Federazione di Bari, per Giancarlo la lotta non era mai di retroguardia.

Sapeva che se vuoi battere i padroni devi essere più bravo di loro (da qui la sua meticolosità) ma anche calibrare le forze e praticare l’obiettivo (come negoziatore era un vero osso duro).

Tenendo la barra del manifesto nelle sue crisi a fine millennio, non perdeva mai di vista il triangolo in cui ci muoviamo da quando siamo nati: fare un giornale, rafforzare il campo più vasto della sinistra, gestire un’impresa cooperativa comunista autonoma e indipendente.

Scriveva nel 1996: «Sono temi non da poco. Ma la continuità stessa del giornale è direttamente legata alla capacità di rispondere a questi quesiti e alla rottura con un pezzo della nostra tradizione: l’assuefazione a convivere con la precarietà».

Battere l’«assuefazione alla precarietà» significava rompere i propri limiti, guardare oltre, buttare ciò che non funzionava più e rafforzare ciò che poteva funzionare meglio. In quei giorni il Pci non c’era più. Una storia si chiudeva ma il manifesto doveva andare avanti. Oggi siamo sempre lì.

Era comunista, Giancarlo, ma univa a questo suo orizzonte una fortissima moralità (valutare le persone dal disinteresse con cui agiscono è, almeno per me, un metro assoluto per giudicarne il valore) e una intelligenza a tutto campo, raffinata e levantina quando necessario.

Un paio di suoi modi di dire sono rimasti nella memoria mia e penso di altri che l’hanno conosciuto.

Il primo è «quasi decentemente», come rispondeva sorridendo a chi gli domandava «come stai?». E subito dopo entrambi si scoppiava a ridere, perché gettava l’amo per una complicità non lagnosa, un modo per dirsi tante cose senza salamelecchi.

L’altra frase è: «Poca cosa». Quando Giancarlo diceva di qualcosa o qualcuno «è poca cosa» potevi stare certo che era così. Lo diceva di rado, ma era un giudizio senza appello.

Abbiamo lavorato insieme per molti anni sulla difesa dei contributi pubblici alla stampa. Era un vero maestro sull’argomento.

Affrontava ogni girone dantesco di tagli e controriforme da par suo: studiava, elaborava, ascoltava, scriveva, individuava le soluzioni e poi trovava le forze e gli alleati per realizzare quelle soluzioni. L’idea di legge ad personam gli era estranea. Interveniva sul giornale o sulle forze politiche con la rara capacità di risolvere un problema contingente e contemporaneamente individuare l’orizzonte da raggiungere per tutti. Pura scuola Pci, credo, per me che sono di tutt’altra generazione.

Un giorno viene nella mia stanza e mi dice che devo fare un’inchiesta su una certa bega relativa ai fondi pubblici ai giornali. Ero arrivato da poco ed ero onorato che si rivolgesse a me un compagno così esperto. Mentre parliamo, piazza sulla mia scrivania due borsone straripanti di fogli e cartelline: il materiale utile per la mia inchiesta. Non riesco neanche a dire mezza parola che inizia subito: «Non ti preoccupare, ora ti spiego». E in effetti mi ha spiegato. Studiando aveva trovato un vizio nelle norme che andava a vantaggio di alcuni giornali danneggiando il senso complessivo del sostegno pubblico alla stampa.

A fatica, impiegai settimane a venirne a capo. Sapevo che lui aveva ragione ma nel giornalismo d’inchiesta non conta nulla ciò che sai, conta solo ciò che puoi dimostrare. Sbagliare anche solo un dettaglio può mandare a monte perfino le inchieste più fondate. Alla fine, riuscimmo a scriverne. E, anni dopo, quelle tesi – in modo del tutto indipendente – finirono in sentenze e decisioni amministrative.

Giancarlo era avanti di anni. Aveva cultura, fiuto e intelligenza politica.

Si rammaricava del declino del movimento cooperativo e della sinistra.

La difesa del lavoro e del giornalismo indipendente sono state le sue profonde passioni politiche. Non sopportava le ingiustizie e le sciatterie. Era autoironico ma non indulgente.

È stato un amico e un maestro per molti di noi. Non lo dimenticheremo, e la terra gli sarà lieve.

Un abbraccio forte ad Alba e alla famiglia

Ci ha lasciato nella notte di sabato, a Roma, Giancarlo Aresta. Giancarlo era nato a Terlizzi (Bari) il 7 maggio del 1945.

Già docente universitario e direttore della casa editrice De Donato, è stato un autorevole dirigente del Pci a Bari fino alla svolta.

Da sempre vicino al «manifesto», è stato parte importante della vita del giornale, per lunghi anni con ruoli di responsabilità nella cooperativa editrice. In prima linea per il pluralismo e la libertà di stampa, è stato tra i dirigenti di Mediacoop, l’organizzazione nata per rappresentare le testate in cooperativa.

Alla moglie Alba Sasso, nostra amica e preziosa collaboratrice, alle figlie Francesca con Paolo e Marinella con Luca, ai nipoti Iacopo, Eva e Lorenzo e a quanti l’hanno conosciuto e amato l’abbraccio forte forte del collettivo del manifesto.

Chi vuole condividere un ricordo o un saluto a Giancarlo può scrivere a lettere@ilmanifesto.it