Alessandro Margara era arrivato a guidare l’Amministrazione Penitenziaria dopo un percorso noto: era persona ben conosciuta a chi dedicava intelligenza e tempo a riflettere sul sistema delle pene e delle possibili modalità esecutive o a operare nelle istituzioni a ciò preposte. Un percorso di esemplare applicazione delle norme e dello spirito della legge penitenziaria approvata poco più di venti anni prima, di riconosciuta competenza e assoluto rigore e anche però di grande connessione delle norme con un sentire sociale che ha sempre caratterizzato il suo approccio al tema della pena e della sua esecuzione e che ne ha delineato il profilo di «giurista sociologo»: di un operatore di giustizia guidato dal senso del recupero possibile e dalla non accettazione della negatività che la mera applicazione della norma penale può portare con sé qualora non orientata dal criterio del perseguimento di una qualche utilità sociale, anche nell’inflizione di una sanzione dura, e dalla ricerca del possibile recupero dell’autore del reato.

Una cultura che veniva da lontano

Una cultura che veniva da lontano. Aveva, infatti, radici in un cattolicesimo sociale ben vivo a Firenze negli anni che da un lato vedevano l’esperienza di comunità di base quale quella dell’Isolotto – tanto mal vista dall’allora Arcivescovo fiorentino reduce da recenti singolari tenzoni con il prete di Barbiana e non desideroso di aprire anche un «fronte» cittadino – e dall’altro la vivacità teorica di un nucleo di riflessione di democrazia laica portato avanti da un gruppo di credenti di fisionomie e ambiti d’indagine differenti che si riconoscevano attorno alla rivista Testimonianze e alle ampie e formative discussioni sviluppate da Ernesto Balducci.
Racchiudere questo mondo di confronti e discussioni nella formula di «ex Lapiriani» è riduttivo: ne indica soltanto un filone genetico e soprattutto non dà conto degli sviluppi e delle ramificazioni in ambiti di riflessione diversi, conservati nel tempo e tuttora riconoscibili (…).

Questa lettura del contesto ha fortemente influenzato l’opera del rigoroso giurista, anche nella previsione acuta degli esiti di ogni norma che il Legislatore andava discutendo negli anni e di cui Alessandro Margara ha via via intuito e prefigurato l’applicazione futura, in modo da enuclearne gli elementi critici o controversi affinché si intervenisse in fase di analisi e di approvazione per evitare tali esiti.

La rimozione dall’Amministrazione

Molti dei suoi scritti testimoniano la costanza di questo lavoro di continua attenzione alla direzione che la «barca» dell’esecuzione penale andava prendendo a seconda degli spostamenti del «timone» politico, spesso determinati da emotività per alcuni eventi, ricerca di consenso, ricorso periodico all’uso simbolico delle norme penali. (…)

Spesso, molto spesso, Margara non è stato ascoltato. Anche la sua esperienza al vertice dell’Amministrazione – che molti di noi avevano salutato come inizio di un cambiamento – si è conclusa precipitosamente, con poco più di una lettera di saluto da parte di un Ministro che pur apparteneva formalmente a uno schieramento progressista, ma che non voleva rinunciare al desiderio di accondiscendenza verso gli umori di una presunta opinione pubblica ciclicamente orientata a chiedere una improduttiva severità verso chi commette reati, anche di minore rilevanza, e una certa scioltezza nelle procedure, senza troppe regole e troppa attenzione ai diritti delle persone coinvolte.

Margara, ritornando a fare il normale Magistrato di sorveglianza, volle scrivere una lettera in cui non affrontava il problema personale di come e perché fosse stato rimosso, ma il problema culturale di cosa tale rimozione rappresentasse nelle sue motivazioni e nella modalità secondo cui era avvenuta. Del resto in quegli anni l’ipotesi «trattamentale» del carcere — centrata sulla possibilità di costruire un percorso di positivo reinserimento del detenuto nel contesto sociale — andava in parte affievolendosi e in parte deformandosi verso una connotazione correzionalista di revisione del proprio comportamento e di trasformazione soggettiva sulla base di buonsenso etico. (…)

L’orizzonte rieducativo della pena

Per Margara fuori dall’orizzonte rieducativo la pena si riduceva al male inflitto per compensare il male prodotto, rischiando di precipitare al livello pre-moderno di vendetta, non compiuta dal singolo, bensì affidata alla funzione esterna e «astratta» dello Stato. Una detenzione senza un’ipotesi di costruzione di un percorso di ritorno al contesto sociale del resto rischia di produrre ulteriori vittime: sono coloro che la società non reintegra e di fatto esclude; oltretutto con alti costi per la collettività che invece può trarre un evidente vantaggio futuro dagli investimenti in termini di intelligenze, supporto e risorse fatti per un positivo reintegro nel contesto sociale. (….)

Negli anni, da un lato la crisi economica ha portato progressivamente a ridurre le speranze delle strutture solide per il percorso rieducativo — proprio Margara ormai nella funzione di Garante delle persone private della libertà della Regione Toscana organizza nel 2013 un Convegno di studio dal titolo chiaro: Il carcere al tempo della crisi. Dall’altro, il peggioramento delle condizioni detentive, anche per il sovraffollamento, ha portato a spostare l’attenzione verso l’obbligo assoluto di rispettare in ogni caso la dignità della persona ristretta: dalla finalità rieducativa affermata in coda al terzo comma del sempre citato articolo 27 della Costituzione alla prima parte del suo enunciato che recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

Due processi che saldano le due polarità dialettiche verso un unico obiettivo: ridare fisionomia e sensatezza al nostro sistema delle pene.

(tratto dall’antologia «La giustizia e il senso di umanità», acd Franco Corleone, Fondazione Michelucci Press 2015, titoletti nostri e non dell’autore)