Se estrapolato dal contesto in cui è stato formulato, il giudizio per cui il Pd sarebbe ormai “guarito dal renzismo” non convince. Non perché non siano visibili mutamenti rispetto alla stagione “renziana” , a cominciare da una guida maggiormente sensibile alle esigenze della mediazione politica e non più vocata al personalismo ad impianto plebiscitario. Ma perché la repentina affermazione di Renzi nel Pdsi spiegano solo in ragione di un processo di lunga durata che ha investito le forme politiche della sinistra dall’’89 in poi.

Mi riferisco alla graduale convergenza fra subalternità al ciclo economico-sociale neoliberista e concezione “maggioritaristica” dell’assetto istituzionale che ha definito il dna “post-ideologico” del maggiore partito della sinistra nelle sue varie trasformazioni. Senza considerare come questo impianto culturale si sia radicato in profondità nei gruppi dirigenti cosiddetti “riformisti” ed abbia motivato la stessa nascita del Pd (che mai ha incarnato, al contrario di quanto a volte si legge, la convergenza tra la cultura cattolico-democratica e quella di matrice socialista), non si capisce non solo il successo di Renzi alle primarie – a fronte dell’esaurimento di un determinato ceto dirigente – ma neppure l’attuale orientamento lettiano.

A ben guardare, nel Pd odierno l’impostazione prevalente è ancora di natura liberal-democratica: un partito centrato sul ruolo degli amministratori, con un elettorato coagulato soprattutto nei centri storici e nel “ceto medio riflessivo”, tenuto insieme dal primato del governo e in cui nella lettura dei processi sociali si rifiuta, prevalentemente, il riferimento al contrasto fra capitale e lavoro, ed anzi si prefigura una loro costante “collaborazione” (che altra cosa dal “compromesso”). Un partito, insomma, in cui resta preponderante l’esclusione della materialità dei conflitti e l’estraneità ai nodi di una moderna critica del capitalismo.

D’altra parte, occorre riconoscere che alla sua sinistra non è cresciuta nessuna soggettività in grado di politicizzare la rappresentanza del lavoro, delle vecchie e nuove subordinazioni, di incanalare la stessa contrapposizione fra alto e basso su cui hanno fatto leva i diversi populismi, di dare carne e sangue alle domande sociali.

La motivazione di questa radicale difficoltà è da ricercare in un insieme di fattori, a cominciare dall’impaccio di un ceto politico comunque proveniente dall’esperienza della socialdemocrazia più influenzata dal ciclo neoliberista e da una visione ottimistica della globalizzazione (spesso condivisa, specularmente, da parte della cultura radicale e “altermondista”). Tutto questo ha però comportato che l’elettorato “di sinistra” rimasto – purtroppo molto lontano dal “popolo” che una volta animava le forze del movimento operaio – oggi si coaguli prevalentemente intorno al Pd.

Così, l’alternativa, nei fatti, è quella tra la difesa (non immune dal patetismo) di una microidentità strutturalmente incapace, dati i rapporti di forza, di organizzare una soggettività significativa in termini organizzativi ed elettorali, e l’accettazione di una sfida: stare dentro il soggetto maggioritario nel riformismo italiano per cambiarlo e spostare a sinistra il suo profilo, facendo leva su quanto già nel Pd e nella compagine di governo può spingere in questo senso.

Penso a un processo su base federativa né indolore né privo di asprezze ed elementi di conflittualità politica. Nello sforzo i recuperare un retroterra fra gli esclusi e nei ceti popolari, riannodando il filo fra una moderna rappresentanza sindacale e la soggettivazione politica del lavoro. Ciò significherà spingere nella direzione del superamento di una sorta di “vocazione minoritaria”, preoccupata più di presidiare il radicamento fra i lettori di Repubblica sulla base dell’“agenda Draghi” che di recuperare voti fra gli operai o tra i riders.

Raggiungere tali obiettivi, aggregare nuove energie è possibile, anche se impone una battaglia di ampia durata, chiama impegnarsi in quella che Gramsci indicava come la “guerra di posizione” e implica l’adozione di una buona dose di realismo. Derogare ad esso rimane, del resto, uno degli errori più gravi per chi ancora confida nelle ragioni della politica.

 

*Esecutivo Nazionale “Articolo Uno”