Dopo Jamal Khashoggi un altro giornalista saudita, Turki Bin Abdul Aziz Al-Jasser, è morto. Rintracciato dal suo account anonimo su Twitter, era stato torturato per aver denunciato le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita.

Nei paesi autoritari si muore per potersi esprimere, in quelli democratici si abusa della libertà d’espressione.

In Italia aumenta ogni giorno il numero di chi si rende colpevole di fenomeni di cyberbullismo, cyberstalking, hate speech, revenge porn. Solo nel 2017 i casi conclamati di cyberbullismo sono stati 354. Pochi giorni fa i reati

degli aguzzini di Carolina Picchio, quattordicenne suicidatasi per le offese ricevute sui social dopo la diffusione di un video imbarazzante, sono stati dichiarati estinti.

La legge del 2017 sul cyberbullismo, gli interventi del Garante per la privacy, le campagne di comunicazione non sembrano bastare. I social network continuano a calamitare la rabbia e l’aggressività repressa di chi si sente defraudato di qualcosa da qualcuno. I bersagli preferiti rimangono i politici, i professori, i giornalisti, chiunque incarni l’autorità o una presunta élite.

Complice l’immobilità sociale, la crisi economica, l’incapacità di comprendere fenomeni globali come l’immigrazione, la rabbia esplode cercando bersagli a casaccio.

Aiutati da un atteggiamento antiscientifico, un vasto sentimento anticasta, comizi online basati sul vaffanculo, e una profonda ignoranza di come funzioni davvero il Web, molti, troppi, pensano che sulle reti sociali si possa dire di tutto.

Così al riparo di un presunto anonimato si confonde la libertà d’espressione con la libertà di insulto e il matematico Piergiorgio Odifreddi diventa uno pseudo-intellettuale, Gianni Riotta un bufalaro, Laura Boldrini una donnaccia e il virologo Burioni un mercenario. Tanto per fare degli esempi.

Spesso sono gli stessi parlamentari della Repubblica a fare post e commenti sopra le righe. Salvini ha riciclato ed esasperato la critica renziana ai gufi e ai professori mentre Di Maio e Di Battista hanno promosso i giornalisti a «puttane, pennivendoli, infimi sciacalli».

Con questi esempi non ci si può aspettare che il popolo bue dotato di smartphone possa rinunciare a esprimere con minacce e maleparole un disagio che andrebbe curato nei consultori.

Facebook, Twitter, Instagram, sono progettati per farci reagire in maniera emotiva e, quando non si hanno molte occasioni di confrontarsi e di ragionare, l’impulso a litigare sui social durante la guardia al capannone, l’attesa del cliente che entra in negozio, tra un’email di lavoro e un’altra, fa uscire fuori il lato peggiore di noi.

Pensando di condizionare il dibattito sui social, colpevolmente usati come fonte d’informazione dai media tradizionali, si arriva a manifestazioni estreme, augurando perfino la morte dell’interlocutore.

Ma c’è un però. Nessuno è al di sopra dalla legge che, se vuole, ha tutti gli strumenti per indagare e sanzionare chi, abusando della libertà della Rete, è autore di comportamenti grossolani che sfociano in reati veri e propri.

Però non basta. E non è solo per le lentezze, i costi e le contraddizioni della giustizia nostrana.

La soluzione è la cultura. In Italia, seconda in Europa per analfabeti funzionali, penultima nella classifica dei laureati, con basso indice di lettura di libri e giornali, bisogna trovare un’altra strada.

Un primo tentativo lo hanno fatto le Biblioteche di Roma con la Polizia di Stato e il Cini, trasformando la biblioteca Marconi della capitale in un centro di divulgazione su privacy e sicurezza informatica.

Chissà che non diventi un modello.