«È una provocazione», il sottosegretario Gianclaudio Bressa, delegato agli Affari regionali, reagisce così, a botta calda, alla richiesta con cui il governatore del Veneto Luca Zaia cerca di mettere subito all’incasso il successo ottenuto col referendum di domenica. Per tutto il giorno il governo si era cullato nell’illusione che quel referendum non comportasse nessuna conseguenza, nessun vero scossone. Il governatore lombardo Roberto Maroni aveva parlato con un Paolo Gentiloni affabile e pronto a intavolare dialoghi, purché nel perimetro circoscritto dalla Costituzione. L’affondo di Zaia, che ha fatto approvare dalla Giunta una proposta di modifica costituzionale per inserire il Veneto tra le Regioni a statuto speciale, ha dimostrato che quella calma piatta era illusoria.

«Siamo pronti ad aprire un tavolo, ma a condizione che le Regioni approvino una legge in attuazione dell’art. 116 della Costituzione», prosegue Bressa. Cioè che si limitino a chiedere l’autonomia differenziata, come sta facendo, senza bisogno di passare per il referendum, l’Emilia.

Il problema è che quella via maestra è in realtà un binario morto. Di lasciare al Veneto una quota più sostanziosa dei ricavi fiscali non se ne parla. La Costituzione lo impedisce, come aveva dichiarato già di buon mattino il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina. Ma anche quel che è trattabile richiederà tempi biblici: l’iter è lungo di per sé. Devono essere approvate le leggi regionali, già presentate, poi discusse con il governo e infine approvate dal Parlamento a maggioranza assoluta. Se ne riparla a legislatura prossima ventura. La lettura che del referendum davano al governo era rassicurante anche in termini elettorali:

«A Milano abbiamo vinto e vinceremo di nuovo. Nel resto di Lombardia e Veneto il risultato era già noto, quindi non cambia nulla».

La mossa di Zaia è studiata per mantenere invece aperta anche materialmente una vicenda che avrebbe comunque inciso a fondo sulla campagna elettorale.

Matteo Renzi, che agli umori degli imminenti elettori è sensibile, tira acqua al proprio mulino: «Questo risultato non va minimizzato. Il messaggio è serio: più efficienza, più autonomia, maggiore equità fiscale. Bisogna prendere atto che in Italia esiste una gigantesca questione fiscale. Ci vuole un patto tra i partiti per ridurre le tasse». Il segretario del Pd si prepara a una campagna elettorale nella quale chiederà voti in nome della lotta alle tasse, eterno cavallo di battaglia del rivale Silvio Berlusconi. Il quale invece sfodera anche in questa occasione il nuovo piglio “istituzionale” e responsabile. Si dichiara soddisfatto per il risultato dal quale deve nascere un percorso di riforma federalista «anche perché non è un risultato che vada contro l’unità nazionale, che per noi è sacra».

Berlusconi ha fatto il possibile nelle ultime settimane per “mettere il cappello” sul referendum, tanto più che proprio lui era stato il principale sponsor di una candidatura di Zaia alla premiership. Quella carta al momento non è sul tavolo, lo stesso governatore del Veneto è tornato ieri a negarsi mettendo le mani avanti: «Intendo restare dove sto». Ma se il centrodestra dovesse raggiungere la maggioranza e la Lega fosse al suo interno il primo partito, il nome di Zaia sarebbe inevitabilmente in campo prima di ogni altro.

Il leader del Carroccio Matteo Salvini si gode risultati che premiano lui più di ogni altro anche perché ridimensionano il “rivale” Maroni. Però è attento a non esagerare. Assicura che si tratta «una vittoria non della Lega ma degli elettori». Sostiene che «lo Stato farebbe bene a lasciare alle Regioni alcune materie di cui non riesce ad occuparsi, quindi anche un’autonomia fiscale maggiore». Però non si lascia sfuggire una sola parola troppo “nordica” o che possa passare per antimeridionale.

È la vera differenza rispetto ai tempi ruggenti della prima Lega. Ora sia il Carroccio che Forza Italia sanno che sono in campo spinte autonomiste anche a sud, e si candidano a rappresentare non una parte dell’Italia contro l’altra ma il complesso di quelle tendenze a nord come a sud. A destra solo Fratelli d’Italia, contraria al referendum, mastica amaro nel day after. Ma senza drammatizzare e deludendo chi sperava in una lacerazione: «Nel centrodestra non siamo d’accordo su tutto. Capita. Ma io e Salvini siamo alleati solidi».