«Sono quella che sono grazie al dolore delle vite che ho incrociato» dice Lorena. Per una vita ha seguito come psicologa bambini adottati poi si è rimessa in gioco per aiutare i migranti che percorrono la rotta balcanica in condizioni sempre più disumane. 

Ha incrociato il dolore e se ne è fatta carico, questo dice con la sua voce gentile: «È una scelta che mi proviene forse anche da lontano: dalla mia famiglia, da mio padre che è stato un comandante partigiano e da mia madre che è stata una staffetta garibaldina. È da questi miei genitori, dal dolore che loro hanno dovuto affrontare in tempi difficilissimi, che probabilmente mi proviene questo voler prendermi cura della vita. Per questo sono in strada, da cinque anni, per offrire aiuto a quanti soffrono per l’ingiustizia e la mancanza di libertà».

Così Lorena Fornasir, presidente dell’Associazione Linea d’Ombra, quella che per mesi a Trieste ha portato un primo soccorso ai migranti che scendevano a piedi dal Carso sloveno con la speranza di poter continuare il loro cammino verso un porto sicuro. Si è occupata degli ultimi, quelli che volevano continuare il viaggio e si nascondevano in un enorme edificio abbandonato, senza cibo, senza acqua, tra i calcinacci, la sporcizia, i ratti, quando la bora soffiava violenta e gelida o quando il sole e l’aria limpida invitavano a uscire, a respirare, a guardare sorridendo la vita.

I volontari di Linea d’Ombra portavano un po’ di cibo, qualche giacca o un paio di scarpe e curavano le ferite, soprattutto i piedi, dilaniati da un cammino di centinaia di chilometri: «Occuparsi dei piedi vuol dire occuparsi della parte più bassa di una persona. Ma è la parte che sostiene l’intera persona» dice Lorena «è grazie a questo gesto che posso alzare lo sguardo e incrociare i loro occhi, incrociare tutta la speranza che loro ci mettono nell’andare avanti, nel camminare. È la speranza della vita, non posso non prendermene cura. Devo tanto ai migranti, alla forza della loro speranza. Per me è anche l’occasione per inchinarmi a quei piedi e alle ingiustizie che hanno subito».

Poi, con il lockdown, le è stata tolta l’autorizzazione e ogni intervento si è interrotto. 

«Sappiamo che nei boschi sono nascoste centinaia di persone», dice sottovoce in un messaggio vocale, «sappiamo anche di respingimenti crudeli, di torture…». Il messaggio si interrompe ma sembra non occorra aggiungere altro.

Lorena ha tanti ricordi che dice le hanno insegnato molto. «Ho incrociato la vita di Alì, un ragazzo che la polizia croata aveva rimandato in Bosnia, con venti gradi sotto zero, dopo avergli tolto le scarpe. È arrivato in Bosnia con i piedi in necrosi e questi piedi lo hanno condotto alla morte. Alì si è rifiutato di farsi tagliare i piedi perché… perché in quei piedi c’era tutta la speranza della sua vita».

Affrontare il dolore, attraversarlo, sono i concetti che Lorena ripete più spesso. È stato fatto in anni passati da quanti hanno combattuto per la Libertà ed è un insegnamento che va raccolto: «Non ho potuto non farlo, sono questa che sono anche per quei valori, per quell’esempio che mi viene dai miei genitori», ripete Lorena.

Il padre è stato il partigiano garibaldino Ario, commissario politico della Brigata Ippolito Nievo che reclutava reparti misti di osovani e garibaldini nel Friuli occidentale. Ario, che aveva preso il comando della Brigata dopo che il comandante Mario Modotti Tribuno era stato catturato, torturato dalle milizie repubblichine e poi fucilato con altri 28 partigiani. Era stato allora che le formazioni partigiane del pordenonese si erano costituite nella Divisione Garibaldi “Mario Modotti” e al comando di questa Ario era entrato a Pordenone divenendo il comandante della piazza militare alla Liberazione.

«Per anni mio padre è stato il mio mito: da bambina lo vedevo così deciso, così pieno di personalità, me lo ricordo davanti nei cortei a prendere le botte dalla polizia di Scelba e mia madre che usciva di casa per difenderlo, magari con qualche sasso in mano», il racconto si ferma e sembra che l’ombra di sua madre prenda corpo e si illumini come i chiarissimi occhi azzurri di Lorena.

«La storia di mia madre è molto bella» dice «mia madre, Maria Antonietta Moro, è stata staffetta politica tra i comandi partigiani, prima come Nataša con gli sloveni di Tito nel goriziano e poi, dopo l’8 settembre, con il nome di battaglia Anna nella Brigata Garibaldi di pianura. Era anche infermiera, così ha potuto dedicare le sue cure ai partigiani, sia sloveni che italiani. Ha lasciato un diario, l’ho trovato soltanto alla sua morte: ci sono le sue memorie di tre anni di guerra, ci sono i dubbi, le considerazioni, le emozioni che, attraverso le tremende esperienze che deve vivere, modificano plasmano e consolidano il suo modo di guardare alla vita. Nello stesso cassetto del comodino ho trovato anche alcune lettere che lei e mio padre si erano scambiati in quegli anni di sacrificio e di lotta: riflettono, si confrontano, si incoraggiano… Una miniera, per capire cosa sono stati quegli anni terribili e con quale animo e con quanta speranza quei giovani erano cresciuti. Questi documenti sono diventati uno spettacolo teatrale e poi un libro (Tutte le anime del mio corpo ed. Jacobelli) e mi hanno fatto riflettere e capire fino in fondo mia madre: la sua dedizione, il suo coraggio e le scelte dolorose, le rinunce, sempre convinta che la vita deve essere curata, giorno dopo giorno».

«Adesso siamo fermi in casa, non possiamo fare nulla, possiamo soltanto inviare in Bosnia il denaro che l’associazione riceve dalle donazioni», dice Gianandrea, il marito e compagno di vita e di impegno «Intorno ai campi dove il governo bosniaco ha sigillato i migranti ci sono ancora dei volontari che conosciamo e che portano qualche genere di conforto o, come ultimamente, organizzano la distribuzione del pane convenzionandosi con qualche panetteria della zona».

«La nostra è una scelta politica, perché fare politica vuol dire occuparsi dei problemi sociali. Fuori dalle istituzioni, dentro la società e, quindi, dentro l’ingiustizia», Gianandrea ne è convinto: «Lottare contro l’ingiustizia credo sia lo scopo di ogni essere umano pensante».

Lorena e Gianandrea sanno che un altro mondo è possibile e lo indicano: è sempre quello, quello che i partigiani avevano nel cuore e che dava loro la forza di continuare a combattere e che a buon diritto fa dire oggi a Lorena: «È ancora Resistenza, oggi, contro la barbarie e il veleno che si è diffuso nel nostro mondo. Avere cura della vita, della società, del bene comune: i gesti al posto delle parole, praticare solidarietà, come nell’esempio di mio padre e nelle parole di mia madre».