«Ogni volta che esco da casa mia vedo il carcere di Ragusa, dove ho trascorso la mia prima notte in Italia». Jallow Momodou adesso si dice «in pace»: lavora al Caffé Italia, nella centrale piazza San Giovanni; ha acquistato un appartamento; si è sposato e vive con la moglie. Originaria della Guinea Conakry e conosciuta prima di partire, lo ha raggiunto in Sicilia dieci giorni fa per ricongiungimento familiare. «Fortunatamente non ha dovuto affrontare il viaggio toccato a me», dice guardandosi indietro, ripensando al suo percorso: una moderna Odissea.

PARTIAMO DALLA FINE. Il 21 aprile 2017 Momodou sbarca a Pozzallo. Pensa di essere finalmente al sicuro. «Invece mi arrestano come fossi un grande criminale. Non capivo neanche perché». All’arrivo in porto il ragazzo, che non ha ancora compiuto 19 anni, dice la verità: «Ho guidato il barcone, sono stato costretto». Rimane in cella tre giorni. Lo interrogano. Il fermo viene convalidato, ma a piede libero.

Da quando ha lasciato il Gambia sono già trascorsi due anni. Ha attraversato Senegal, Mali, Burkina Faso e Niger, prima della Libia. Più si allontana da casa più aumentano le difficoltà. Ad Agadez ha finito i soldi. Prima di arrivare a Sabha, snodo libico per le persone dirette a nord, viene arrestato. Riesce a uscire. Cerca lavoro nei chat place, alle rotonde. Fa il muratore, bada agli animali. Un giorno viene portato lontano, lavora duramente per due settimane, quasi senza cibo. Ma non lo pagano e rischia di essere abbandonato nel deserto.

DOPO VARIE PERIZIE raggiunge Tripoli. «Qui il lavoro alle rotonde era troppo pericoloso. Nelle case o nei bar era più sicuro, ma pagavano al mese: rischiavi di lavorare tanto e non vedere i soldi. I libici lo fanno spesso: ti puntano le armi addosso e ti dicono di andartene. O peggio: a volte ubriachi vanno alle rotonde e sparano, come sugli animali». Momodou decide di rischiare la sorte. Si fa assumere in un bar, l’impiego che ritroverà in Italia. Vive lontano dal centro. «Non potevo muovermi. Fuori non mi sentivo sicuro. Così ho deciso di riprendere il viaggio, anche se ero arrivato in Libia per restarci».

Si mette in contatto con dei trafficanti. La partenza è dalle coste di Sabratha, 70 chilometri a ovest di Tripoli. La prima e la seconda volta «dei mafiosi si avvicinano e forano il gommone». Bisogna rientrare subito. Anche nel terzo tentativo ci sono problemi con il mezzo: ma ormai la costa è lontana, sono in acque internazionali. Dei pescatori egiziani li vedono e con una fune trasbordano quelli che possono. «C’erano donne che urlavano perché non trovavano i figli o i mariti». All’arrivo a terra si aprono le porte di Beni Walid. Un nome che fa venire i brividi ai migranti subsahariani che hanno attraversato la Libia. Due parole che corrispondono a un centro di tortura.

«SAI COME STANNO le sardine in una scatola? Ci tenevano così. Ci facevano chiamare a casa durante le botte. Si esce se paghi o se qualcuno ti compra. Mia madre si è indebitata per mandare dei soldi. Mi ha salvato la vita». Così viene riportato a Tripoli. Cerca il trafficante a cui ha dato i soldi. Li vuole indietro. Quello gli offre un nuovo viaggio. Lo riporta a Sabratha. Momodou dorme per strada quattro mesi, attendendo una partenza. Poi incontra un uomo, si chiama Coffee. «Mi ha promesso di aiutarmi. A Zawyia c’erano uomini potenti che potevano farmi arrivare in Italia. Mentre andavamo lì con la sua macchina mi diceva di stare tranquillo. Avrei solo dovuto fare un lavoretto. Senza aggiungere altro».

All’ingresso della struttura Coffe si fa dare 600 dinari da un uomo e scarica il ragazzo. «Sono rimasto a bocca aperta. C’erano migliaia di persone, di ogni nazionalità. Io, però, ero tenuto da parte, insieme a qualcun altro». Una notte Momodou viene portato in spiaggia. Caricato su un gommone insieme a 140 compagni di viaggio. Intorno ci sono libici armati e a volto coperto. Alcuni  indossano vestiti militari, ma non tutti. Uno sale sul loro mezzo e guida per un po’, scortato da una seconda imbarcazione veloce. A un certo punto ferma il motore.

«A ME HA DETTO DI GUIDARE, a un altro di tenere la bussola. Ho risposto che non sapevo farlo. Mi ha puntato la pistola. Poi mi ha spiegato come muovere il timone, dove andare e come usare un grosso telefono. Così ci hanno lasciati in mezzo al mare». Nelle prime ore da terra i trafficanti chiamano Momodou, chiedono dove si trova, ripetono di andare dritto, dicono che se torna indietro lo ammazzano. Con l’aiuto di alcuni pescatori libici, che però si fanno consegnare risparmi e telefono satellitare, i migranti raggiungono le acque internazionali. Sono spaventati, il mare peggiora. «Ho pensato: se vado avanti moriamo tutti, se torno indietro muoio solo io. Quindi sono già morto, provo a salvare gli altri». Poco dopo aver invertito la rotta, però, appaiono delle luci. Si riveleranno i gommoni di soccorso di una nave, «una grande nave arancione», probabilmente di una Ong.

Sembra fatta. Allo sbarco a Pozzallo, però, scattano le manette. In primo grado arriva una condanna pesante per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina: 4 anni e 8 mesi di carcere e oltre 2 milioni di multa. I sogni rischiano di infrangersi. «Il fatto c’è. C’è il trasporto. La prima sentenza, però, sostiene che il mio assistito era parte dell’organizzazione che sta dietro al viaggio. In appello, invece, abbiamo dimostrato che aveva guidato per stato di necessità: per salvare la vita sua e degli altri, dal mare e dai libici», dice l’avvocato Marco Comitini.

QUELLO DI MOMODOU non è un caso isolato. Sono migliaia le persone che si trovano nelle carceri italiane con accuse simili. Spesso a fare la differenza è la qualità della difesa, non sempre garantita fino in fondo a persone appena arrivate. Dal naufragio di Cutro in poi il governo aveva annunciato l’intenzione di dare la caccia agli scafisti «in tutto il globo terracqueo» e di usare il pugno di ferro in Italia. Dagli ultimi numeri del Viminale, però, non è possibile capire se i capitani arrestati siano effettivamente aumentati o diminuiti rispetto agli scorsi anni.

Questa volta è stato fornito soltanto un dato aggregato: 425. «La cifra non include solo le persone accusate di aver guidato una barca – afferma Richard Braude, di Arci Porco Rosso, che cura un report annuale – Ma tutta una serie di reati legati all’immigrazione clandestina. Servirebbe maggiore trasparenza per capire meglio le attività di polizia sul tema». Di sicuro grazie al lavoro di associazioni e avvocati negli ultimi anni tante persone sono state riconosciute innocenti. Casi che fanno giurisprudenza e trasmettono una diversa interpretazione del fenomeno. Contribuendo a evitare che i migranti siano condannati per assolvere i confini.