Caro direttore, mentre ancora almeno 9 persone, di cui alcuni minori, annegano nel canale di Sicilia, le trombe squillano annunciando la svolta storica dell’approvazione del nuovo Patto Europeo sulla migrazione e l’asilo. Ma è davvero così?

Sarebbe ingeneroso negare alcuni passi in avanti, determinati dalla decisione di rendere obbligatoria la redistribuzione dei migranti in caso di una particolare pressione; ma nella sostanza è un passettino, poco più dell’agenda Juncker del 2015.

Certo si impone una solidarietà, tante volte negate, ma il Regolamento di Dublino non è stato superato.

Intanto, la responsabilità rimane comunque in capo al Paese di primo approdo (e cioè l’Italia); poi vorrò vedere con i miei occhi il trasferimento di contributi finanziari di chi non accetterà ricollocamenti (soprattutto Ungheria e Polonia).

Ma non basta!

Con una farisaica valutazione di chi ha diritto e chi no, vengono inasprite le verifiche sugli sbarchi, mentre la lista dei Paesi cosiddetti sicuri consente di fare strame dei diritti di chi ha più bisogno, rinnegando i principi sacri contenuti nella nostra Costituzione e non mi voglio nemmeno avventurare sulla straordinaria innovativa idea dell’accoglienza in Albania celebrata come la via maestra del domani.

Mi viene in mente quanto denunciato nella civilissima Milano dove la qualità dell’accoglienza dei migranti è stata demandata alla valutazione della Magistratura. Una qualità di accoglienza che ci fa vergognare e soprattutto dove immagino che le condizioni sociali del Paese possano offrire di più.

Che cosa potrà avvenire in Albania lontano dai nostri occhi?

Continuo a sperare che si tratti solo di un fuoco d’artificio in vista della scadenza elettorale dell’8 giugno, perché faccio fatica a credere che si possa convenire su una scelta così irragionevole.

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Allora ritorno a prospettive ordinarie, da persona con i piedi per terra e leggo una articolata ricerca di qualificati editorialisti su possibili e credibili percorsi d’inclusione.

La strada indicata è quella giusta. È l’unica capace di costruire percorsi di inserimento dei cittadini che arrivano da noi, di arginare il precipizio di denatalità. Ne parlava Giuliano Amato nei primi anni del 2000, lo denunciava il senatore Livi Bacci, tra i più importanti demografi italiani e accademico dei Lincei.

E non è bastato nemmeno nei mesi passati, l’allarme del governatore della Banca d’Italia, tradizionalmente di una prudenza atarassica, o del principale giornale economico del Paese.

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È necessario strutturare percorsi che costruiscano opportunità promuovendo l’acquisizione della lingua, la formazione professionale, l’housing; offrire un titolo di soggiorno che consenta credibilmente di immaginare il proprio futuro nel nostro Paese partecipando allo sviluppo economico e sociale.

Così fanno i popoli che sanno guardare avanti, oltre lo steccato della prossima scadenza elettorale, così per esempio fa la Germania ed è una scelta che io condivido.

Credo però che la gestione di un fenomeno così complesso e articolato fatto di bisogni, di responsabilità di contaminazioni di culture e di fragilità debba essere affidata alle istituzioni più vicine ai cittadini: i Sindaci.

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Rendere i sindaci concretamente protagonisti dell’accoglienza con numeri compatibili con il territorio e la popolazione residente, anche attraverso incentivi, non mina l’autonomia comunale.

Una scelta di coraggio che consenta il rispetto dei diritti, la flessibilità del tessuto dell’accoglienza, la scelta di una strada nuova per il futuro di un Paese in affanno.