Non è per ristabilire la memoria che chiamiamo la gente attorno al 25 aprile. Non servirebbe molto.

Quando mio padre mi parlava della prima guerra mondiale, ascoltavo, ma sapevo che davanti agli austriaci non mi sarei trovata. E lui non insisteva su quel macello che pure era stato un discrimine nella sua generazione.

Così oggi i giovani ascolterebbero, temo, quelli di noi che ricordano la resistenza per quel che fu, per quel che subirono o fecero e non fecero, per i compagni perduti. Allontanarsi dal passato è cosa della vita, la più crudele.

Se mai c’è da chiedersi perché oggi sia così grande la smemoratezza. Parli del 1960, bah. Del 1968, non ero ancora nato. Sembra un vanto non esserci stati ancora. Come se più si fosse incerti di sé, più si rifuggisse dal guardare da dove si viene. Ma questo è un altro discorso; non è dunque per «difendere la resistenza» che sarò in piazza il 25 aprile.

Difenderla da chi? I fascismi dagli anni venti ai quaranta sono iscritti come cicatrici sul volto d’Europa, non saranno Fini e un paio di funzionari di Raiuno a cancellarle. Né da costoro val la pena difendersi.

E se quel che vanno strillando minaccia di riempire un vuoto, quel vuoto interroga il dopo: perché s’è celebrato più che riflettuto, perché i ragazzi di oggi arrivano a fine liceo dove arrivavo io nel 1940? Ma questo esame di coscienza non si fa in piazza.

In piazza si parla dell’oggi. Per il fascismo hanno votato un mese fa il 14 per cento degli italiani, e in novembre a Roma un cittadino su tre. Non è poco. Un voto fascista non è — non dispiaccia chi si consola pensando che sono voti perduti dalla Dc — come un voto democristiano; quello era pigro, basso, voleva lasciare le cose come stavano.

Il voto al Msi è un voto attivo, rancoroso, chiede il bastone per un «altro» ordine. Chi vota Fini non lo vota perché non sarebbe più fascista: lo vota perché pensa che lo sia.

E’ un voto contro le poche virtù della nostra democrazia. Il suo bersaglio è il senso comune civile del dopoguerra che si è tradotto nella Costituzione del 1947. Nessuno la leggeva fino a ieri, tanto pareva ovvia, anzi piatta, ovviamente repubblicana, democratica e antifascista.

Ovvia non è più. Eccola oggi al centro d’un conflitto sul presente, nel quale, e non sul passato, rispunta come una variabile, insepolto, il fantasma fascista.

E’ per aver provato il fascismo sulla pelle e nella guerra che l’Italia della Costituente si dava una democrazia di qualche spessore: non restaurava il passato dopo una parentesi, come l’avevano definita Croce e Mondolfo, costruiva delle salvaguardie, tracciava qualche binario.

Diventava repubblica, una e indivisibile e articolata sui comuni e le regioni. Oggi ne sono in questione l’indivisibilità e le autonomie.

Spostava il potere sulle assemblee elettive al centro e in periferia, che dovevano legiferare e nominare i loro governi. Oggi si vogliono tutti i poteri ai governi e zero alle assemblee.

Voleva una magistratura unita e indipendente, oggi si chiede che l’accusa diventi discrezionale e in qualche modo dipenda dal potere politico.

Dichiarava diritti il lavoro, la casa, l’istruzione e l’assistenza. Oggi si dice che sono merci, chi ha soldi se le compra, chi non ne ha li riceva come assistenza caritativa.

Non è un rovesciamento improvviso, striscia da un decennio, capovolgendo le spinte dal 1968 agli anni ’70, e ora sta venendo alle strette. Nel giro d’un anno le prospettive d’un ventenne saranno drasticamente ridotte rispetto a quelle di chi aveva vent’anni nel 1970. Berlusconi, Bossi e Fini litigano su tutto ma non su questo.

Questo è il bivio del presente, la fine del senso comune antifascista. Questo è l’oggi della resistenza modello 1994.

Ieri e oggi

Ma non è ancora fascismo, si dirà: tendenza assieme a spaccature e centralizzazioni, a finire con la separazione dei poteri, all’azzeramento delle minoranze.

Tira un po’ di vento totalitario. Ma non fascista. Il fascismo è un salto oltre. Siamo stati i primi a farlo negli anni venti, ma la storia non si ripete.

Lo credo anche io. Ma mi vedo attorno un brodo di coltura nel quale le pulsioni fasciste, che hanno antenati illustri nelle idee e nelle identità del moderno, si erano esplicitamente tradotte in una politica, un ordine sociale.

Qui il discorso ci tocca da vicino. C’è una crisi di crescita, e nell’incertezza sul futuro il conflitto si è spostato: non più fra padrone e lavoratore, ma fra chi ha un lavoro e chi non lo ha o teme di perderlo. C’è una crisi di rappresentanza, e s’è rivolta non per un più, ma per un meno di autodeterminazione. La cupidine di obbedienza è rabbiosa.

Indebolito, il sindacato si è chiuso a sinistra e ora si vuol dargli il colpo finale da destra. Tornano a girare dei veleni, il diverso è inferiore e minaccioso, quello che ti vuol prendere il poco che hai, che è colpa di tutto, l’ebreo per definizione, e poi il nero, lo straniero, il terrone.

Voglia di autoritarismo e trasgressione gestuale che lo mima, in sigle e uniformità allusive, violenza, violenza di gruppo, sesso come violenza. Tutti esibiti come valore, prova di appartenenza.

Non c’è più una radicale discontinuità fra il linguaggio di Ostia e il senso comune. Da popolare il paese diventa populista, e il populismo tracima in fiumane che spaventano.

Non è l’internazionale nera, non i servizi deviati. Ci sono anche questi. Ma è più oscuro quello su cui cresce il voto di Fini, ce lo abbiamo attorno, cresce da quando si è delegittimata l’idea d’un cambiamento capace di ridare senso a una disperante serialità. Gli umiliati e offesi fanno sogni funesti.

«Schindler’s list» non spiega che cosa fu il nazismo. Troppo semplice leggerlo come una vicenda di follia e corruzione. Ma mostra quel che fa un nazista, un comune Ss che poi se ne andrà a casa: mira alla testa di un uomo, un bambino, una donna come un bersaglio mobile, dopo averlo messo in ginocchio e averne riso. Questa non è crudeltà, questo è il superuomo, al di la del bene del male, l’esperienza totalmente oltre l’umano, esaltante, orrenda.

Questo è fascismo. Non è stato seppellito, circola. Lo ricominciamo a intravvedere, per strada, in un certo tipo di violenza, in una sua estetica, in certi richiami, passa per il video. Non è un alieno.

Nel 1994 s’è condensato e gravita di nuovo su un partito di governo.

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