«Eppure un gran numero di effetti psicologici ci sembra evidenziare un declino sociale dell’imago paterna. Declino condizionato dalla ripercussione nell’individuo di effetti estremi del progresso sociale, declino che si nota, soprattutto ai nostri giorni, nelle collettività più provate da questi effetti: concentrazione economica e catastrofi politiche».
Sono parole di Lacan, nel saggio del 1938 sui “Complessi familiari nella formazione dell’individuo” (Einaudi, 2005). Vedeva nel declino della figura del padre l’origine di una «grande nevrosi contemporanea» di cui macroscopici sintomi erano i regimi totalitari. Un “grande dittatore” poteva compensare quell’assenza paterna prodotta dalla trasformazione delle dinamiche familiari per effetto di quel complesso di cose molto complicate e contraddittorie che anche allora si chiamava “progresso”?

Il primo settembre dell’anno successivo la Germania nazista attaccava la Polonia e iniziava a seconda guerra mondiale. Le idee di Lacan si sarebbero in seguito sviluppate e molto complicate (specialmente agli occhi del dilettante che scrive) anche sulla figura paterna e il suo potere normativo. In quel passaggio, che suona così sinistramente contemporaneo, l’autore che pure diceva poco sopra di non fare «parte di quelli che si affliggono per il cosiddetto rilassamento del legame familiare» sembra emergere un rimpianto per quell’eclisse affettiva e simbolica.
La citazione tenta di indurre qualche lettore, specialmente se padre, ma non solo, ad approfittare della festa del papà – oggi 19 marzo, onomastico di tutti i Giuseppe, il più famoso e simpatico padre putativo – non solo per godersi i cioccolatini ricevuti in una scatola a forma di cuore. Ma anche per riflettere un poco sul senso più vero che può avere la discussione esplosa dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin, sulla fine o al contrario sulla resistenza ostinata del “patriarcato”.

Non esagererei a datarne la scomparsa – come ha fatto Massimo Cacciari, con argomenti certo da par suo – a quattro o cinque secoli fa. Ma il fenomeno ha cominciato a diventare molto evidente un secolo fa.
Forse è proprio per questo – ancora Lacan dixit – che è capitato a quel medico viennese suo maestro di inventare, tra Otto e Novecento, la psicanalisi.
Di quel “progresso”, oltre a tutto ciò che riguarda l’economia, la tecnica e la politica, faceva parte anche un moto di rivolta femminile che dai tempi di Olimpia de Gouges è giunta sino ai nostri giorni, e a quel gesto separatista degli anni Settanta che ha aperto un’altra epoca. Definita dalle femministe italiane della differenza come quella in cui il credito femminile al patriarcato è finito, e quindi è finita la sua forza simbolica (Sottosopra rosso, È accaduto non per caso, 1996).

Se questo è vero allora i femminicidi – rivolti quasi sempre contro donne che scelgono di separarsi, o pretendono di decidere liberamente della propria vita – e tutta la reazione maschile che vediamo nell’aggressività di certa destra, nella confusione della sinistra, e nella passione dilagante per la guerra, sarebbero sintomi pericolosissimi della perdita di credito, autorità, forza. Un sentirsi perduti che precipita nella violenza più oscura.
Tocca a noi continuare a cercare di esprimere qualcosa di diverso dal disagio o dall’assillo di una rivalsa. Il desiderio di una nostra libertà più vera? Oltre l’ossessione per il possesso, il controllo, la pretesa di dominare le altre, gli altri, il mondo. Un’altra idea di Patria, una terra anche dei padri senza maiuscole?

Il libro di Gino Cecchettin (Cara Giulia, Rizzoli) nelle classifiche sorpassa quello del generale Vannacci.
Parliamone.