Tutti rinsaviti alla Cop26? Oltre cento leader, che guidano i paesi nei quali si trova oltre l’85% delle foreste del pianeta, si sono impegnati a porre fine alla deforestazione e a invertire la tendenza del fenomeno entro il 2030, mettendo sul tavolo impegni finanziari (pubblici e privati) per un ammontare di 19,2 miliardi di dollari. La dichiarazione Glasgow ha visto la firma, fra gli altri, del presidente del Brasile Bolsonaro, impegnatosi a «fermare entro il 2030 la deforestazione illegale»: e quella legale?

Sono della partita, fra gli altri, Australia, Indonesia, Russia e Unione europea. Tutti paesi che hanno visto negli ultimi due anni andare in fumo – letteralmente – milioni di ettari di ecosistemi boschivi; oppure che, come il Vecchio continente, importano in modo massiccio materie prime e prodotti responsabili della deforestazione o del degrado: bovini, olio di palma, soia, cuoio, cacao, legname. Non per niente la presidente della Commissione europea Ursula von Der Leyen ha annunciato una prossima «proposta di regolamento per affrontare la deforestazione globale provocata dall’Ue». Gli europei, «leader» della deforestazione a casa d’altri (Africa, Asia, America latina), non si credono più assolti.

Promesse da marinaio costellano il loro passato: in fondo, «porre fine alla deforestazione entro il 2020» è uno degli Obiettivi dello sviluppo sostenibile che l’Ue ha sottoscritto nel 2015. Le emissioni di gas serra legate alla deforestazione e al degrado degli ecosistemi superano il 10% del totale.

Breve sguardo al passato recentissimo. All’inizio di quest’anno, il World Resources Institute (Wri) scriveva: «Il 2021 deve essere un punto di svolta, dopo che nel 2020 si sono persi oltre 12 milioni di ettari di foreste tropicali, fra i quali 4,2 milioni di foreste primarie in precedenza indisturbate». E illustrava un tremendo circolo vizioso: «La distruzione è anche una conseguenza di eventi meteorologici estremi e a sua volta li alimenta». Non dimentichiamo gli ecosistemi alberati non tropicali. Abbiamo ancora negli occhi le immagini di milioni di alberi e animali carbonizzati fra il 2019 e il 2020 in Australia (là sembrano aver imparato la lezione, ma i koala sono stati decimati dal fuoco). E pochi mesi fa, Greenpeace Russia riferiva al Moscow Times che gli incendi in Siberia avevano superato 1,5 milioni di ettari. Quanto all’Italia, nel 2021 ben 150.000 ettari sono finiti arrosto; peggio che nel 2008.

Tornando a Glasgow: dei quasi 20 miliardi di dollari promessi dai firmatari del reiterato obiettivo di proteggere le foreste, l’Unione europea si è impegnata per un miliardo, un quarto da destinarsi al Bacino del Congo, secondo polmone della Terra dopo l’Amazzonia, e «cuore verde dell’Africa, che dà pioggia al Sahel e agli altopiani etiopici e acqua al Nilo, fino alle terre agricole dell’Egitto», come ha sintetizzato in conferenza Félix Tshisekedi, presidente del Congo Rdc e di turno dell’Unione africana, precisando poi che la Commissione delle foreste dell’Africa centrale lavora per «migliorare le condizioni di vita delle popolazioni affinché non siano costrette a deforestare: agricoltura ecologica, energia durevole, diritti delle comunità e delle popolazioni indigene». Evocati anche la piantumazione di miliardi di alberi e l’allontanamento delle produzioni agroindustriali dalle foreste e torbiere.

Ali Bongo, presidente del Gabon (paese coperto quasi al 90% da foreste e con risorse scarse per la loro protezione), ha sintetizzato: «La comunità internazionale ha sottovalutato il bacino del Congo; il mondo sviluppato ha saccheggiato le nostre foreste e a noi rimanevano solo il 10% del valore e il 5% dei posti di lavoro (…) per sopravvivere, questi ecosistemi devono essere utili ai nostri paesi e offrire lavoro; chiediamo investimenti sostenibili».

Ma davvero con l’accordo di Glasgow sulle foreste l’umanità si convertirà da predatrice a «custode della natura» come ha detto il padrone di casa Boris Johnson? E’ troppo improvvisa la conversione di tanti governi indifferenti. E un déjà vu appare l’impegno delle multinazionali (da Amazon a Unilever, con la Leaf Coalition, che vuole «ridurre le emissioni accelerando la finanza per le foreste tropicali») e delle banche internazionali. I mercati anche volontari del carbonio e i meccanismi di compensazioni sono un classico del green washing. «Investire nelle soluzioni naturali è win, win, win»: ha detto Mauricio Claver della Banca interamericana di sviluppo; peccato che 200 organizzazioni ambientaliste e per i diritti umani abbiano appena denunciato il finanziamento pubblico accordato al gigante brasiliano della carne bovina Marfrig.

Alla Conferenza di Parigi nel 2015, la Global Forest Coalition ricordava che la deforestazione zero entro il 2020, indispensabile, non doveva essere raggiunta con meccanismi di mercato; o con false foreste piantumate.