«Siamo stati chiamati con nomi diversi: slavi, nomadi, zingari, rom. Soprattutto siamo stati trattati in maniera differente, perché considerati cittadini di serie B, o meglio di serie Z, perché “zingari”». Tre donne hanno letto ieri questa lettera davanti al Campidoglio, durante una manifestazione degli abitanti delle baraccopoli romane di Candoni, Castel Romano e Barbuta. Si sono dati appuntamento in una fredda mattina di gennaio per portare al centro della città il bisogno che cresce nelle sue periferie più remote: la casa popolare.

«BASTA UFFICI SPECIALI per i rom, basta bandi fatti apposta su di noi, chiediamo solo di riaprire le graduatorie per l’assegnazione degli alloggi pubblici», afferma Hanifa Govosurcic, 30 anni. È tra coloro che sono riusciti a lasciarsi la baracca alle spalle e andare a vivere in una casa vera. «La mia vita è cambiata – racconta – ho trovato lavoro come mediatrice culturale e i miei figli vanno a scuola come gli altri, senza pulmini. Il comune non spende più soldi per me. Sono fortunata ora. Auguro lo stesso agli altri che sono qui».

TRA LORO c’è Marcello Amidovich: ha 30 anni e una famiglia numerosa. «Ho sempre vissuto a Castel Romano. Nel campo si soffre. Il Covid-19 ha peggiorato le cose: non abbiamo avuto contagi perché siamo stati sempre a casa, ma in molti hanno perso il lavoro. Io compreso. Chiediamo il nostro diritto: sbloccare le graduatorie e assegnare le case».

MOLTE FAMIGLIE sono posizionate in alto e per questo in trepida attesa, ma nella capitale c’è un grosso problema al dipartimento Patrimonio e politiche abitative. Il 22 gennaio la Commissione trasparenza, chiesta dall’Unione Inquilini (Ui) con il consigliere di Sinistra X Roma Stefano Fassina, ha fornito numeri drammatici. Da ottobre a dicembre 2020 è stata assegnata una sola casa popolare. Il dipartimento soffre una cronica mancanza di personale. «Non puoi gestire 65 mila domande di contributo affitto più le assegnazioni delle case con poche decine di persone. E questo è un tema politico a cui si collega anche la mancanza di alloggi disponibili. Le assegnazioni si basano sulle case di risulta, quelle restituite dopo gli sgomberi o la morte dell’inquilino. Non bastano, servono più alloggi pubblici», dice Massimo Pasquini, segretario nazionale Ui.

UNA RAPPRESENTANZA di abitanti dei campi è stata ricevuta durante la manifestazione da un delegato del presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito. La lettera è stata protocollata, ma non ci sono impegni formali. L’amministrazione risponderà in una settimana. «Oggi è avvenuto qualcosa di nuovo a Roma. Per la prima volta queste famiglie hanno detto basta ai piani rom e ai progetti speciali, chiedendo di essere trattate come qualsiasi cittadino che ha diritto alla casa popolare. È un atto politico importante», ha commentato Carlo Stasolla, presidente dell’associazione 21 Luglio.

SECONDO I DATI più aggiornati, che rappresentano però una «fotografia sfocata» perché combinano numeri del 2019 e del 2020, nei cinque campi istituzionali della capitale vivono circa 2.600 persone, altre 750 si trovano nei campi tollerati e circa 1.300 nei micro-insediamenti informali. Nessuno dei «piani rom» o «piani nomadi» presentati all’arrivo di ogni nuova amministrazione comunale, Raggi compresa, è riuscito nell’obiettivo di superarli attraverso politiche pensate e realizzate su base etnica.